Settantatre
minuti di musica sono un’enormità; lo erano al tempo del vinile, lo sono
tutt’oggi per ragioni molto meno pratiche. Spingendosi oltre una certa
durata, diventa difficile mantenere la coesione del progetto musicale e si
corre il rischio di perdere in compattezza o di risultare monotoni. Di recente
ci hanno provato, a fortune alterne, Santana (Supernatural) e Micheal
Jackson (Invincibile), entrambi alla ricerca di un disperato rilancio
commerciale. Capolavori come Transcendental blues di Steve Earle oppure
All that you can’t leave behind degli U2 non superano i cinquanta
minuti. Il sound ipnotico del Dylan di Time out of mind arriva sino ai
settantadue, ma a patto di concedersi un’interminabile Highlands di
sedici minuti. Per intenderci, Born to run, manifesto di compattezza,
non tocca i quaranta, ossia venti minuti in meno del tanto bistrattato Human
touch; l’interno The River non oltrepassa gli ottantaquattro
minuti.
Con
The Rising, Bruce Springsteen realizza un album che diventerà una
pietra miliare della sua carriera. Grazie all’apporto di ‘nuove
orecchie’, come il Boss stesso ha definito il produttore Brendan O’Brien,
materializza un lavoro che si spinge al di là delle legittime aspettative del
suo esigentissimo pubblico: un’ora e dieci abbondante di musica, ripartita
in quindici pezzi dall’amalgama straordinaria, spesso antitetici ma
assimilati da un mixaggio sapiente ed innovativo, che distorce e nel contempo
rispetta i canoni della E Street Band.
Il
disco si apre con Lonesome Day che è un’immediata dichiarazione di
intenti. Organo e violino si impossessano di un brano scritto in perfetto
stile Springsteen anni novanta. Relazioni difficili e simbolismo religioso,
con quel ‘House on fire, viper’s in the grass’ a riecheggiare lo ‘Snake
crawling in the hi house, I’m stuck in muddy gound’ di Trouble
river. Poi, quando infine entra la band, ci si accorge che in cabina di
regia Mr. O’Brien ha rimpiazzato Landau & Co. La nitidezza dei singoli
strumenti è sostituita da un nuovo impasto fonico in cui batteria, chitarre e
sax si colgono a livelli d’ascolto distinti. C’è una nuova unità che
pare la versione 2002 del wall of sound di Born to run.
Into
the Fire è il primo tributo
alle vittime dell’11 settembre. La glorificazione del pompiere-martire del World
Trade Center, cristallizzata da un ritornello semplice e grandioso quanto
l’eroismo di chi, nell’anonimato, compie quotidianamente il proprio
dovere; tema carissimo al Boss, per certi versi lo stesso eroismo di Factory,
e The Wish. Nel gioco di stravolgimento e rispetto delle tradizioni,
ecco che è proprio Brendan O’Brien a riproporre un Glockenspiel,
abbandonato chissà dove nel 1975.
Waitin’
on a Sunny Day si prefigge di
seppellire il ricordo di una Hungry Heart che ha ormai esaurito la sua
carica. Dopo il pop-rock di Lonesome day, il Country-Blues di Into
the Fire, eccoci rispediti negli anni sessanta da un pezzo che,
sorprendentemente, riesce a non apparire nostalgico. Nothin’ man
riprende là dove sfumava il sax di Secret Garden. Sorella minore di Street
of Philadelphia, questa canzone è tra le più cupe ed intimistiche del
repertorio springsteeniano: la totale perdita di autostima di chi, pur
reputato un eroe, si sente una nullità e medita il suicidio.
Countin’
on a miracle è un altro brano
Springsteen anni novanta, abbellito da un sound estremamente incisivo e
variato. Presenta la figura di una persona che lotta per superare un lutto.
Considerati i continui riferimenti favolistici in un tema così delicato,
viene il sospetto che il Boss metta in scena un genitore che, abituato a
spiegare ai figli il male tramite l’allegoria delle fiabe, si trovi a fare i
conti con la propria spiegazione.
Empty
Sky sorprende per finezza
psicologica. L’assenza, la frustrazione e l’inutile desiderio di vendetta
del protagonista sono magistralmente messi in musica da un ritmo ripetitivo e
da una martellante ripetizione del titolo. A differenza del brano precedente,
l’io narrante non riesce a superare il trauma e resta imprigionato nella sua
ossessione. Tutto ciò che percepisce e tutto ciò che la canzone esprime è
un cielo vuoto.
Wolds
Apart è un altro schiaffo a
chi credeva che riunendo la E Street Band, Springsteen avrebbe dimenticato gli
anni novanta. Sonorità mediorientali che si mescolano alla chitarra di Human
touch, testo di amore interculturale e di pace possibile malgrado guerra e
religioni. Let’s be firends (skin to skin) è l’intervallo
tra il primo e il secondo tempo di un album densissimo. Il suo pop non sembra
all’altezza del degli altri pezzi ma funge da boccata d’aria rigenerante
dopo brani estremamente seri e in previsione del gran finale.
Further
on (up the road) sembra
sottolineare ancora una volta la mano di Brendan O’Brian; la ballata
presentata al termine del reunion tour assume l’andatura incalzante
di Light of Day o Murder Incorportated ed il cantato
‘nasale’ di Bruce appare davvero azzeccato. Il tutto rende quella che era
una versione arrabbiata di Lucky Town un unicum nel repertorio
Springsteeniano.
The
Fuse dimostra la vitalità
creativa di Springteen passati i cinquanta: appare il coronamento delle
sperimentazioni musicali del quarto disco di Tracks, occhieggiando agli U2 di Zooropa.
È forse il pezzo dell’intero album che, ascolto dopo ascolto, migliora
maggiormente. La festa di Mary’s place ci riporta al 1973. È
l’estremo opposto di The Fuse eppure, magia del mix, suonano
perfettamente l’una accanto all’altra. Figlia di Rosalita e Thundercrack,
e filtrata attraverso The ghost of Tom Joad da cui eredita una certa
malinconia, questo motivo è l’esplosione di E Street gioia di cui si
aveva bisogno.
You’re
missing; fotogrammi e assenza.
Dopo Mary’s place ci riporta al tema centrale dell’album,
l’elaborazione del lutto post 11 settembre. Un’altra canzone in cui si
affronta la difficoltà di convivere e superare la morte di un congiunto, in
cui ‘Children are asking if it’s alright, will you be in our arms
tonight?’ si candida a diventare il verso più toccante mai scritto da
Springsteen. Sapiente, ancora una volta, l’impasto sonoro e l’assolo
d’organo in stile Tunnel of Love.
The Rising,
l’ascesa al Cielo dell’eroe della porta accanto, perito facendo il proprio
mestiere. Forse il testo più riuscito del Boss in assoluto, in cui il dramma
è trasformato in apoteosi senza che il protagonista perda la sua natura di
uomo comune. Lo smarrimento, la presa di coscienza della propria fine,
l’ultimo pensiero a Dio e alla moglie, fino all’elevazione in un cielo di
pienezza e beatitudine; tutto descritto tramite singole istantanee.
Paradise è
la canzone che non ti aspetti; Fa pensare a cosa sarebbe stato se la E Street
Band avesse registrato The ghost of Tom Joad. Ci si sentono dentro il
Mark Knopfler di Brothers in arms, e i Pink Floyd di Wish you were
here, oltre naturalmente al Sound of silence di Paul Simon. Per la
seconda volta nell’album si affronta il tema del suicidio, risolto però con
una decisa volontà di ritorno alla vita.
My city of
ruins è il capolavoro che chiude questo disco straordinario. Le sue
tonalità gospel suggellano un disco dove i contenuti spirituali hanno
una parte fondamentale. Magnifico il pianoforte conclusivo che sembra lasciare
in sospeso l’ultima nota. A qualcuno ricorda qualcosa?
Un’ultima
considerazione va fatta sul modus scribendi di Springsteen. The
Rising è stato accusato di essere un album dai testi mediocri e
ridondanti, in cui non accade nulla e dove parole come Love, Faith, Hope,
Strength, ricorrono sino alla noia. Per ciò che riguarda il vocabolario,
questi termini sovente ripetuti, fanno da spina dorsale all’album. Sono
parole certo semplici ma di fortissimo significato sul quale l’intero album
è costruito.
Sul genere dei
testi invece è fondamentale ricordare che l’ultimo lavoro in studio del
Boss era The ghost of Tom Joad, un album di vere e proprie novelle
messe in musica. Bruce era il cantastorie, come la tradizione folk
imponeva. Per The Rising si è scelta una via antitetica: della vicenda
si descrivono soltanto alcuni fotogrammi precisi da cui l’uditore ricava una
trama. Emblematici a questo proposito i casi della title track, di Into
the Fire, Nothing man, The Fuse, You’re missing e
Paradise. Esattamente come il sound ridotto all’osso di Darkness
on the edge of town era antitetico a quello trionfale di Born to run,
e Born in the U.S.A si opponeva in tutto a Nebraska, così i
testi di The Rising vogliono evolvere ed allontanarsi da quelli del
predecessore.