Por Vida: A Tribute to the Songs of Alejandro Escovedo
(Cooking Vinyl 2004) 1/2
Punto primo: le canzoni di Alejandro Escovedo hanno una qualità particolare (ne hanno molte, in realtà , ma una spicca più delle altre), ovverosia il dono di suonare immediatamente come la più originale tra le interpretazioni possibili. Non è un fattore scontato; altri nomi, se vogliamo ben più grandi, ne sono sprovvisti. Invece le canzoni di Alejandro sembrano quasi impossibili da rinnovare, almeno a patto di non snaturarle completamente. Del resto, quello d'aver disegnato una forma canzone capace di contenere Velvet Underground e Iggy Pop, troubadours texani e radici messicane, volute orchestrali e irruenza punk, be', è un privilegio che pochi possono vantare. Se la rivista No Depression, bibbia americana dell'alt.country, ha eletto quest'uomo "artista della decade" (riferendosi agli anni '90), insomma, un motivo ci sarà . Punto secondo: il corpo di Alejandro Escovedo, ora, è purtroppo debilitato da una rara forma di epatite C che, in pratica, gli impedisce di registrare e di esibirsi live con regolarità . Il trattamento medico richiesto da questa malattia comporta costi notevoli, che il nostro non riesce a sostenere. E' nato così il progetto Alejandro Fund (
http://www.alejandrofund.com), in pratica un piccolo gruppo di volontari dediti al reperimento e alla gestione di fondi per le cure del cantante. Altro segnale concreto dell'interessamento ricevuto dal caso presso la "comunità roots" americana è il tributo Por Vida (introdotto da un sagace profilo critico di Dave Marsh), doppio cd i cui proventi verranno destinati alle attività del fondo. Prescindendo per un attimo dalle tribolate vicende cliniche di Alejandro, la cui sofferenza credo vorremmo tutti alleviare, come definire l'operazione da un punto di vista critico? Riuscita, senz'altro, e questo va detto subito, anche perché non è semplice obiettare qualcosa di rilevante a 150 minuti di musica durante i quali scorrono i nomi di Lucinda Williams (bellissima la sua Pyramid Of Tears), Steve Earle & Reckless Kelly (fautori di una rocciosa Paradise), Lenny Kaye (protagonista di una Sacramento & Polk à la Lou Reed) o Ian Hunter (un'ottima One More Time, puntellata dalle chitarre assassine di Andy York). Tuttavia, per riallacciarsi al punto primo, va altresì ammesso che, vista l'eccentrica natura dei brani oggetto di rilettura, non mancano i momenti di stanca, le parentesi poco riuscite o alcuni veri e propri guazzabugli stilistici scarsamente efficaci. Tra chi ha pensato di riproporre tali e quali le proprie costanti formali, gli unici ad avere ottenuto un risultato pienamente positivo sono Cowboy Junkies (Don't Need You, rallentata, asciugata e severa), Calexico (la magnetica Wave) e Son Volt (una roccata Sometimes), tutti e tre in possesso di una cifra stilistica altamente personale, peculiare, inconfondibile, tale da rendere massimamente naturale l'appropriarsi di composizioni altrui. Non impressionano, invece, il Bob Neuwirth di Rosalie, l'accoppiata Jon Langford/Sally Timmis alle prese con Broken Bottle, la Jennifer Warnes di Pissed Off 2am, la Rosie Flores di Inside This Dance o il Charlie Musselwhite di Everybody Loves Me, in quanto le loro riletture sembrano peccare di semplicismo eccessivo rispetto a brani originali di ben altra caratura. Anche nel folto gruppo dei traditori della lettera dell'artista, cioè i più audaci rispetto allo stile originario delle canzoni, si riscontrano diversi alti (notevoli) e bassi (altrettanto notevoli). Spiazzano e convincono i violini del Section Quartet, la cui Crooked Frame mostra disinvolta il passo rigoroso della musica classica, così come la Nicholas Tremulis Orchestra, che porta Velvet Guitar a passeggio tra reggae ed Hawaii, oppure ancora l'inedito trio composto da M. Ward, Howe Gelb e Vic Chesnutt, assai evocativi nelle atmosfere country-noir di Way It Goes. Piuttosto incomprensibili, al contrario, sono la claustrofobica She Doesn't Live Here Anymore del decano John Cale, una Last To Know tramutata dai pur bravi Jayhawks in un poco felice groviglio di rock'n'roll e psichedelica e una Ballad Of The Sun And The Moon banalizzata a colpi di funky scipito da Pete Escovedo e Sheila E.
Ciò che resta, oltre a una bellissima canzone nuova dello stesso Escovedo (Break This Time), sono tanti, onesti esempi di americana che, se non valgono le intuizioni di partenza dell'artista omaggiato, regalano in ogni caso buone e robuste e vibrazioni. E poi, non dimentichiamoci del punto secondo: il vero motore di questa raccolta e il motivo sostanziale per cui un pensierino sull'acquisto dovreste comunque farlo.
(Gianfranco Callieri)