“Questo è il matrimonio in stile italiano che io e Patti e io non abbiamo mai avuto”, ha dichiarato un divertito Bruce Springsteen nel bel mezzo del suo appassionato discorso alla cerimonia al Los Angeles Convention Center dei MusiCares 2013, dopo essere stato insignito del premio quale personaggio dell’anno. Poche ore prima, una teglia di lasagne preparata da sua madre era stata uno dei premi messi in palio dalla lotteria benefica a favore della MusiCares Charity, associazione della Recording Academy, la società che organizza i Grammy Awards, che si occupa di sostenere sia economicamente che sotto l’aspetto sanitario gli artisti bisognosi. Tra gli altri premi della riffa, un giro per due sul sidecar della Harley Davidson di Bruce, una lezione di chitarra con lui medesimo, otto biglietti per un suo concerto, un backstage pass valido per l’intero tour, e una delle sue Fender Telecaster autografate anche da Sting, Elton John, Neil Young e (ehm) Katy Perry. Il riconoscimento assegnato a Springsteen dimostra quanto importante sia la cerimonia del MusiCares, in cui si premia un musicista non solo per il suo contributo all’arte, ma anche per la sua filantropia (tra gli illustri precedenti Paul McCartney e Bono), e di come in poco tempo sia diventato l’evento chiave dei festeggiamenti che si svolgono durante la settimana dei Grammy.
Springsteen sapeva bene a chi si rivolgeva quando ha apostrofato gli oltre 3.000 presenti dicendo: “Avanti, gente dell’1%! Mettete mano al portafoglio e datevi da fare!”. L”appello ha evidentemente funzionato, visto che una delle sue chitarre è stata battuta per 250mila dollari… Ma il momento clou è stato quando alcuni tra i colleghi di Springsteen sono saliti sul palco per quello che il presentatore Jon Stewart ha definito: “Sono due ore e mezzo di tributo alla sua musica… per gli standard di Bruce, vuol dire semplicemente accordare le chitarre”, con ovvio riferimento alla durata record dei suoi show.
È stato così che varie generazioni di musicisti si sono lanciate in letture di classici con risultati differenti. Da una coraggiosa versione di Adam Raised a Cain degli Alabama Shakes – quasi superiore alla ruvida grandezza dell’originale – all’impressionante lettura di I’m On Fire realizzata dai Mumford’s & Sons, un vero inno di musica americana con un banjo in evidenza, mentre la voce di Jackson Browne è risuonata cristallina e forte come quella di una campana nella cover di American Skin (41 Shots). A Patti Smith è toccato invece siglare il momento più catartico dell’intera serata: una versione adeguatamente intensa di quella Because the Night che – se pure universalmente nota nella versione della Smith – fu comunque farina del sacco del Boss.
Springsteen è stato ripreso dalle telecamere che mormorava rapito: “Stupenda!” mentre Emmilou Harris cantava Your Hometown, trasformata in una cascata di evanescenti note. Tougher Than the Rest ha subito un interessante trattamento new country da Tim McGray e Faith Hill, mentre Sting ha trasformato Lonesome Day in un bollente gospel elettrico. Non tutte le canzoni però sono state all’altezza. Ben Harper e Natalie Maines, ad esempio, non sembravano aver compreso l’essenza e la profondità di Atlantic City, sostituendo l’originale senso di decadenza con uno d’ipocrisia fuori luogo. Zac Brown si è distinto in una My City of Ruins per voce e organo, seguito da una pirotecnica Mavis Staples.
La più grande standing ovation della serata, comunque, è arrivata per Jim James e Tom Morello che hanno unito le loro forze per una spettrale e stupefacente versione heavy rock di The Ghost of Tom Joad. James sembrava David Crosby mentre Morello nei suoi a solo ricordava il miglior David Gilmour, quello non ancora perso nelle sue acrobazie chitarristiche auto indulgenti. I presenti sono rimasti di sasso quando Bruce salendo sul palco ha urlato: “E adesso dammi quella cazzo di chitarra!” prima di lanciarsi in un infuocato set di cinque canzoni che ha conquistato la platea. Springsteen è passato da We Take Care of Our Own a Death To My Hometown senza dimenticare un una lunga e particolarmente eccitante versione di Born To Run. Con questo piccolo viaggio attraverso la sua storia musicale Bruce ha dimostrato come le cose facili possano essere rese difficili e vice versa. E ciò è stato più evidente quando eseguendo Glory Days insieme a vari membri della E Street Band e a molti dei colleghi presenti in sala, Bruce è riuscito a far vibrare il cuore di tutti i presenti.
La serata ha dimostrato una semplice verità: il catalogo di Springsteen è estremamente vario e variegato e si adatta a moltissimi generi distanti non solo nello stile, ma anche nel tempo e nello spazio. Le sue canzoni hanno un linguaggio comprensibile da chiunque e si trasformano in inni generazionali e d’identità etnica. Il cantante colombiano Juanes ha iniziato a cantare Hungry Hearts in spagnolo per poi passare a un caloroso doo-woop pianistico e Ken Casey dei Dropkick Murphys ha inserito in American Land ritmi punk gaelici. È stato anche interessante osservare come alcuni artisti abbiano trasformato i brani scelti a propria immagine e somiglianza. Il trattamento riservato da Elton John a Streets of Philadelhia è stato, contemporaneamente rispettoso e irriverente, prima solenne e poi diventando il suo classico rock&roll. John Legend, invece, ha reso Dancing In The Dark una ballata jazz che ricordava la sua Ordinary People con l’aggiunta di un frizzante piano in stile Bill Evans e un tocco di profondità soul. Neil Young ha usato il suo classico stile per rendere ancora più aggressiva Born in the Usa ed evitare così che qualche repubblicano se ne impossessi per una prossima campagna elettorale. Dopo la vigorosa esibizione in cui Young ha decostruito il celebre brano, lo stesso Springsteen ha descritto il senso ultimo di questo tributo musicale e delle emozioni che ha provato: “John Legend mi ha fatto sentire come se le mie canzoni le avesse scritte Gershwin mentre Neil Young come se fossero state dei Sex Pistols. Che serata magnifica!”.
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