domenica 26 luglio 2009, 1:49
Ho un amico.
Si chiama Germano, e vive piuttosto lontano da me.
Quest’anno, per scelta sua, ha rinunciato ai concerti di Springsteen. E’ mercoledì, sto metabolizzando la serata torinese e sono in attesa di partire per quella friulana. E’ sera e mi sento con Germano. Tra una chiacchiera e l’altra, provo a piazzare l’ultimo tentativo per convincerlo a venire a Udine.
“Dai, Germà, che domani fa Something in the night”; si fa così, per convincere una persona a venire a un concerto di Bruce: si prende la canzone preferita di quella persona e gli si dice “dai che domani la fa” pur sapendo che quella canzone sarà praticamente quasi (quasi) impossibile trovarla nella scaletta. La questione si chiude lì, lui ribadisce di non venire e sottolinea che, tanto, anche se venisse, Something in the night sicuramente non sarebbe in scaletta.
Tra una cosa e l’altra, ci parlo un attimo, con Germano, gli parlo delle cose mie e il tempo passa. E’ mezzanotte e mi rendo conto che alle 5 dovrò andare a prendere i miei amici per partire alla volta di Udine.
Io e Germano abbiamo alcune preferenze in comune, sulle canzoni semi-sconosciute di Bruce. E quando ci scambiamo la buonanotte, lui si congeda così: “dai Nicò, divertiti domani, che ti fa Be true”.
Sì, certo.
“T’immagini?” è la mia risposta, a congedarmi dalla conversazione che abbiamo avuto “online”. Risposta fine a sé stessa, sottintesa, che lascia intendere un “Magari, Germano, mi basterebbe UNA di queste due canzoni”
Metto via il pensiero, vado a dormire e già mi son dimenticato di Something in the Night e di Be true.
E’ tutto vero, è andata proprio così.
Sono le 5, è il 23 luglio 2009; nove mesi. Nove mesi dal 23 ottobre 2008, e oggi è una di quelle giornate in cui mi fiondo incontro alle braccia della vita, a cercare quei motivi che mi tengono aggrappato qua.
E’ un giovedì, ci sono già 23 gradi e Angelo e Alberto sono in macchina con me.
Il viaggio d’andata vola via, stamattina ho deciso di raggiungere lo Stadio Friuli di Udine in tempo per “conquistare” un posto nel PIT; non mi interessa la transenna, ma quantomeno vorrei starmene nella zona antistante il palco. Arriviamo e siamo i numeri 654, 655 e 656. Dopo aver ricevuto il numerino da coloro che si son sbattuti per fare la lista, ce ne andiamo all’ombra per un momento. Appuntamento alle 11 per l’appello e la consegna dei braccialetti da PIT. E intanto, mentre facciamo congetture su chi si beccherà il numero 666, ne aprofittiamo per rifiatare in un parco antistante lo stadio.
Alle 11 torniamo nei pressi dei cancelli del “Friuli”, dove scopriamo che il numero 666 è una signora non più giovane, i cui tratti somatici assomigliano in maniera imbarazzante alla bambina protagonista de “L’esorcista” nella fase di massima possessione diabolica. Riceviamo i braccialetti del PIT sotto il sole di mezzogiorno; prendo il sole in faccia 5 (CINQUE!!) minuti e mi basta per avere la pelle rossa tutto il giorno, col contorno degli occhiali… Una volta ricevuti i braccialetti, c’è chi opta per stare lì sotto il sole puntando alla transenna e c’è chi, come noi, opta per andare in un centro commerciale vicino, a mangiare bere e cazzeggiare, respirando aria condizionata.
Il pomeriggio scorre, veloce, e la tensione mi sale: reduce da Torino sono consapevole che questa sera a Udine parteciperò a un evento.
Il tardo pomeriggio è trascorso all’interno dello Stadio, dove faccio i soliti incontri, alcuni graditi, altri decisamente meno. Però gli amici da salutare sono sempre parecchi, quindi l’attesa al concerto non pesa affatto….
Alle 21 lo stadio è pieno, il palco è pronto, il pubblico anche. Salgono sul palco Roy, Nils e Charlie con 3 fisarmoniche, intonano una tarantella divertentissima che dapprima ci spiazza, poi ci fa sorridere tutti quanti. E intanto il resto della E-Street Band sale sul palco, seguita dal “capo”; l’abbraccio canonico con Clarence Clemons, un sorriso e poi via, la tarantella si trasforma nell’intro di Sherry Darling, con le 3 fisarmoniche. E’ subito festa, è subito Bruce, è subito speranza che tutto questo possa durare il più possibile.
“Mandi Udi, Mandi” è il saluto di Bruce, che utilizza il tipico e noto saluto dialettale friulano per accogliere le urla del pubblico caldo.
Mandi Bruce! E’ la volta di Badlands, ormai presenza fissa all’inizio della setlist; un ritorno al passato, un ritorno al “The River Tour”, un ritorno agli inizi degli anni 80 quando Badlands apriva i concerti di Springsteen. Ed è un boato, il pubblico risponde bene, l’acustica c’è, la Band anche. Ed è già chiaro che sarà una serata “per coloro che hanno una certezza, una certezza in fondo all’animo, che non è peccato esser felici di esser vivi”, ed è una serata anche per i cuori affamati. Hungry Heart, altra botta di rock’n’roll, altra canzone cantata all’unisono da 30 mila e più voci. Bruce sorride, sornione, è a casa qua con noi, e si diverte un mondo, forse si sta divertendo più di noi. E non lo nasconde; Outlow Pete arriva in tempo per rifiatare fisicamente, e solo fisicamente, perché la testa e il cuore non hanno tempo per rifiatare. E’ una botta, quell’armonica “morriconiana” che ti introduce nelle profondità dì una delle canzoni più cinematiche del Bruce degli ultimi anni. L’atmosfera che si crea con la storia di Pete il fuorilegge è cupa, rabbiosa, un po’ tetra se vogliamo. Grazie al cielo c’è quel “I’m Outlow Pete” urlato da tutti e poi quel “Can you hear me?” graffiante, urlato, bisognoso di una risposta da parte nostra.
Sì, ti sentiamo. E Outlow Pete vive, è tra noi, anche se ora il suo spirito se ne sta cavalcando via: è la volta di Darlington County, pezzo fatto con il solo scopo di far divertire, quel “sha-la-la” che ti svuota la mente dagli urli smorzati di Outlow Pete, quel rock’n’roll che ti porta via lontano dalle lande desolate di un’America profonda e quasi dimenticata, quel divertimento che solo a un concerto di mr Springsteen puoi trovare. E ci vuole, perché serve a farti sembrare ancora più pesante la mazzata in arrivo. C’è qualcosa nella notte. Un qualcosa di speciale. Ma c’è qualcosa, stasera, a Udine, e lo sappiamo tutti quanti.
L’introduzione al pianoforte è inconfondibile, io ho un attimo di defaillance, anche perché non riesco a capire se quell’introduzione è “ciò che sento” o “ciò che vorrei sentire”.
Fatto sta che mentre tento di scindere i miei pensieri, la mano già sta componendo il numero di Germano. Non ci sto credendo, effettivamente, guardo Angelo per un attimo e so di avere uno sguardo indecifrabile, anche perché mi sono rassegnato al fatto che coincidenze di questo tipo non sono casuali: quello che sta facendo ora Bruce Springsteen a Udine è Something in the Night. Una delle ballate rock più belle che io abbia mai sentito, una delle cose più intime e allo stesso tempo epiche che sia mai passata dalle casse del mio stereo. L’intro al piano sta finendo, Bruce sta per iniziare a cantare.
“Pronto, ehi Nicò” è Germano che mi risponde.
“Che ti ho detto ieri? CHE TI HO DETTO IERI? CHE – TI – HO – DETTO – IERI???” così, per tre volte, senza aggiungere altro, senza prendere fiato tra una frase e l’altra.
Non so come, forse Germano riesce a sentire alcune note, forse gli viene in mente la nostra conversazione. Non so. Ma subito mi dice “No…..” e sbotta in un sorpresissimo “… Something in the night….”
Io non dico altro, alzo il telefono al cielo e gliela faccio sentire tutta. Tutta: se la merita l’amico mio; merita di godere anche lui di questo spettacolo di musica e parole.
Per fortuna dopo c’è “Working on a dream” a smorzare un attimo il pathos che mi si è creato. Devo ammetterlo, la title-track del nuovo disco non mi entusiasma, ma anche se è retorico dirlo, qua davanti a Lui assume un altro aspetto, diventa tutto bello. Anche perché ognuno di noi sta lavorando a un sogno, piccolo o grande che sia, e mentre canti “I’m working on a dreeeeam” ti vengono in mente tutte quelle cose che vorresti o potresti realizzare, a tutti quei piccoli sogni che ogni giorno metti in un cassetto… E intanto ti rendi conto che sì, in quel preciso momento stai realizzando il sogno di essere lì davanti a quell’ometto che non ha problemi a farsi sentire come “uno di noi”… Davanti a una Star che ha ancora i piedi ben impiantati per terra. E Working è lì, per mantenere il ritmo della serata, per prepararti a “ciò che verrà dopo”.
E dopo viene Murder Incorporated, ancora una volta cattiva, urlata, una sassaiola di rabbia che dal palco si fionda sul pubblico davanti. E a questo punto i dubbi sul perché in Italia l’abbia eseguita più d’una volta, si fanno più fondati. E’ una denuncia alla società, un grido di vergogna a recenti e passate faccende che di certo non ci fanno fare bella figura col mondo. E le chitarre di Murder Inc. si contorcono, l’elettricità sta esplodendo sul palco, mentre è in arrivo una versione splendida di Johnny99, che ad ogni Tour si presenta con una veste nuova senza mai perdere il proprio fascino. Scorre via, mentre la batteria di Max introduce No Surrender; finalmente, la summa totale di tutto ciò che è il rock: “abbiamo imparato più da una canzone di 3 minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola”. E sul palco c’è un sessantenne con la freschezza e l’entusiasmo di chi ha la mia età. Un eterno giovane, un Peter Pan che però affronta tematiche e argomenti decisamente seri, sempre impegnati. No Surrender è un inno al rock, all’amicizia, alla musica suonata e cantata. Nessuna resa, nessun cedimento.
E avanti, fino al sottofondo musicale di Raise your hands dove Bruce instaura il simpatico siparietto col pubblico che gli mostra le richieste, e mentre la band crea l’atmosfera di festa con l’intermezzo musicale, Bruce raccoglie i vari cartelli e inizia a scegliere le richieste da esaudire.
E’ incredibile come riesca ad essere un juke-box umano. Vi sono richieste assurde, canzoni che magari Bruce e la Band hanno eseguito 2, 3 volte negli ultimi 10 anni. E la prima richiesta è una cover; Bruce raccoglie un cartello che riporta Summertime Bruce, e il chiaro riferimento è alla splendida Summertime Blues (che aprì il concerto di San Siro 2008). “Well, I'm a'gonna raise a fuss, and I'm a'gonna raise a holler” ed è un’esplosione di allegria, Udine ormai è letteralmente contagiata dall’energia di questi vecchietti che stanno trasformando una calda notte d’estate in un recipiente enorme di emozioni.
Summertime Blues finisce e Bruce raccoglie un’altra richiesta. Mostra il cartello alla band. Poi lo mostra al pubblico. E in quel momento credo che la mia faccia incredula di Something in the night sia diventata una smorfia sullo stile “urlo di Munch”, intrisa di incredulità e follia. Bruce mostra il cartello, ma finchè non inizia, non ci credo. Ma la mano è già sul telefono, come se lei già fosse certa di quanto sta accadendo. Parte la tastiera di Roy, parte la batteria di Max. Parte la telefonata a Germano: è Be True.
E’ un attimo, pensare alla conversazione avuta la sera prima: non mi faccio domande, non indago sulla casualità di quelle due incredibili coincidenze avvenute nella stessa sera. Non penso a nulla, penso solo a guardare Bruce, a cantare a squarciagola una delle canzoni più belle e a cui sono più legato e che mai avrei pensato di sentire dal vivo, con Lui a 20 metri da me che ci guarda sorridendo a tutti quanti. “You’ll be true to me, and I’ll be true to you”, e poi l’assolo di Sax di un Clarence che nonostante età, acciacchi e peso, è ancora lì a regalarci emozioni. A regalarle a noi, ma anche a Bruce (mi piace ricordare quando a Torino, due sere prima, Bruce ha esclamato “oh my god” al termine di un assolo di Clarence). E l’urlo del pubblico, il coro immenso ad accompagnare la coda di questa canzone, verso la prossima richiesta.
Streets of fire, altra canzone tratta dal monumentale “Darkness on the edge of town” (1978), tutta d’un fiato, potente, fresca, che come tutte le altre canzoni dello stesso album non perde mai vitalità e vigore. Canzoni mature, piene, grandiose, che mantengono lo strato di potenza che avevano 30 anni fa. Nils ha a tracolla la chitarra acustica, si sta facendo gli affari suoi all’estremità del palco, quando Bruce gli fa cenno di prendere in mano l’elettrica. Nils obbedisce ed esegue.
E’ l’apoteosi, Nils Lofgren salta e si gira vorticosamente sul palco, in preda a un raptus artistico senza precedenti, e l’assolo finale di Streets of fire vale quasi come l’intero show. Lui, Bruce e Little Steven, le tre chitarre che si incontrano e si scontrano, si guardano, si scambiano cenni e sguardi e ne esce un assolo a tre fantastico, incredibile, tutto fatto al momento, tutto improvvisato. Musica. Con la M.
Lo “spazio richieste” è finito. Per Ora. Uno spazio richieste intriso di magia e sorprese, un incredibile sequel di rock a livelli stratosferici, Bruce che canta e incanta, il divertimento che pare essersi concentrato tra il cemento del “Friuli” di Udine, una densità d’allegria che si tasta con i polpastrelli. E Bruce fa la sua dichiarazione d’amore al pubblico, con una My love will not let you down tiratissima, vivace e che vede la batteria di Max protagonista in esibizioni di potenza e strutturalità. Il pubblico si esalta, Bruce anche, mentre io lo urlo, a squarciagola, il testo di una canzone d’amore spudoratamente dichiarato.
“La notte cammino per le strade in cerca di una storia d’amore, ma finisco sempre che inciampo mentre sono in trance. Cerco un contatto in nuovi sguardi ma sono duri e in difesa dei troppi sogni svaniti. Ti vedo dall'altro lato della stanza che mi guardi senza parlare e io sto per spingere la mia strada attraverso quella folla. Sto per buttare giù tutti i tuoi muri. Butto giù tutti i tuoi muri. Il mio amore non ti abbandonerà”.
E subito dopo l’allegria a farla da padrona, con una Waiting on a sunny day cantata da tutti. E il solito simpatico siparietto, quando Bruce fa cantare un bambino che è lì, nei pressi della pedana laterale al palco. Guardo il maxischermo e realizzo che quello è Leonardo, il piccolo fiore di una coppia bolognese della quale posso vantarmi d’essere conoscente. E’ il figlio di Roberto e Veronica, due splendidi genitori che portano sempre con sé Leo. La mia prima reazione è un’esplosione interiore di gioia, al pensiero di come possano sentirsi ora i genitori di Leonardo. Due genitori che vorrebbero andare a vedersi Bruce anche da soli, ma il figlioletto pretende di essere lì con loro. Ha già capito tutto Leo. Si diverte ai concerti di Bruce.
A tal proposito vorrei aprire una parentesi. Senza polemica, perché non ho nessuna voglia di farne. Ma recentemente, da qualche parte su internet ho letto cose più o meno fastidiose al riguardo. C’è chi è stufo di bambini che cantano Waiting on a sunny day, c’è chi addirittura parla di levare la patria potestà ai genitori che portano i figli nel PIT. Discorsi fatti soprattutto da chi non sa cosa significhi avere figli; persone che se li avessero, sarebbero i primi a portarli lì
Ma quando ho visto Leo, alle 18, tre ore prima del concerto, lo ho visto felice, trepidante, in attesa dell’evento, lo ho visto in una zona sicura; e di sicuro credo sia interesse dei genitori fare in modo che proprio figlio stia bene. Inoltre, non ci sarebbe pericolo per nessuno, né per i piccini, né per gli adulti, se non ci fossero i soliti esagitati ed esaltati. Non entro nello specifico di Roberto e Veronica, che da 5 anni dimostrano di non dover imparare da nessuno a fare i genitori, ma più in generale posso dire che se un genitore porta con sé un bambino nel PIT non può e non deve essere considerato un irresponsabile a priori. Se il bambino si DIVERTE ed è al sicuro, non vedo cosa ci sia di male. Ma questi discorsi lasciano il tempo che trovano. Che poi, a fare la morale, sono sempre quelle persone che con la Moralità ci hanno poco a che fare. E che forse dovrebbero un attimino guardare a sé stessi. Un po’ come la storia del bue che dice “cornuto” all’asino. Parentesi chiusa, anche perché è la volta di una The promised land che io attendo sempre e che canto a squarciagola, ormai la voce stenta, ma non mi do per vinto. Anche perché lì, a pochi metri da Bruce, è così che mi sento: “Ho fatto le mie valigie e cammino a testa alta nella tempesta, vorrei essere un ciclone per abbattere tutto quello che non ha la fede di stare aggrappato alla sua terra.”
E sentire tutto lo stadio urlare in maniera poderosa “Soffia via i sogni che ti devastano. Soffia via i sogni che ti spezzano il cuore. Soffia via le bugie che ti lasciano solo, perduto e con il cuore spezzato”.
Non mi dilungo. E’ la mia preferita, e ne parlerei troppo. Anche perché dopo la botta di The promised land, Bruce con la mano segna un 4 e un 1 alla sua band.
E io godo, perché capisco subito che tra poco sentirò ancora una volta 41 shots. E Bruce è lì, poco davanti a me, a cantarla con uno sguardo intriso di cattiveria, rabbia e convinzione. E quando lo vedo così, mi spiego il perché riesca sempre a fare show incredibili. Lui non è lì a suonare per il cachè. Non solo per quello. E nemmeno per “fare 3 ore di musica e poi a casa tutti felici”. E’ lì perché lui CREDE in quello che fa. E la American Skin (41 shots) di Udine è devastante, da lacrime, con un Bruce che canta “Promettimi che se un poliziotto ti ferma sarai sempre gentile, non correre mai via e prometti a tua mamma che terrai le mani in vista” alzando le mani, facendole vedere. E’ impressionante il brivido che mi tormenta per tutta la durata di questa canzone. Anche perché la prima parte cantata pare essere un sottofondo, che poi si trasforma in un’esplosione di musica quando “entra” tutta la Band.
Grazie a Dio è il turno di Lonesome Day e The Rising, dove a farla da padrone è il pubblico, con le mani, con i cori, con il gioco di luci che dal palco illuminano tutti noi.
E poi Born to Run.
Stadio completamente acceso, è l’apoteosi, l’inno di tutti noi springsteeniani, è magia allo stato puro, è un urlo collettivo “per chi vuole sapere se l’amore è vero, se l’amore è selvaggio”, per i nati per correre. Prima dell’ultima strofa, tutti con le mani su. Mi giro, guardo intorno a me, lo stadio è TUTTO con le mani alzate, e poi via con l’ultima strofa gridata, e sono altri brividi fino alla fine. “Perché i vagabondi come noi, sono nati per correre”.
La band in fila, sul palco, ad accogliere l’abbraccio del pubblico. Bruce vede un cartello, ride e scende dal palco per andare alla transenna.
E’ un cartello con il disegno di un neonato, e al posto della faccia c’è la foto di Bruce. Sulla parte della cuffietta c’è la scritta “BOSS”. Bruce ride, la fa vedere alle telecamere del maxischermo e comincia un teatrino tutto suo. “Baby Boss, Bruce bambino; io bambino, bello bello”.
Ridono tutti, anche perché accanto alla sua foto circondata dal corpo di un neonato c’è la scritta “Born in the USA”; canzone che lo ha reso quello che è, canzone che però lui non fa mai, un’altra vera e propria chicca. Ridiamo tutti. Ridiamo perché sappiamo che Bruce ha preso il cartello per l’immagine, non certo per fare la canzone che c’è indicata. Ridiamo, guardando Bruce che si gira verso la band e dice “Bruce piccolo, baby boss, Bruce bambino”. Col suo italiano stentato e divertente. Poi fa vedere il cartello alla band, annuendo con la testa. Qualcuno urla, qualcuno come me resta zitto. In un’attesa religiosa. “Cosa fa ora?”. Perché io non amo quella canzone, non particolarmente. La amo nella sua veste acustica, dove assume il reale significato di protesta. Ma non nella veste “tamarra”, Quella canzone purtroppo identifica Bruce come un rambo anni 80, agli occhi di chi non ne conosce il testo, quella canzone è un inno dei patrioti esaltati statunitensi.
Invece parla di Vietnam, parla di soldati morti e di reduci che tornano e non trovano lavoro. E’ una protesta poderosa. Cattiva, un INSULTO all’America di Reagan e degli esaltati.
Non la amo nella veste “tamarra” ma so benissimo che sentita dal vivo è un qualcosa di devastante, quindi rimango interdetto, perché sarebbe incredibile sentire pure questa. Sapete perché? Perché a inizio concerto accanto a me c’era un gruppo di sloveni. Una ragazza aveva la bandiera sulle spalle, ma non vedevo lo stemma, vedevo solo i colori. Li ho scambiati per dei ragazzi russi e mi son girato verso Angelo per dirgli “ci manca che stasera, con i russi, fa pure Born in the USA” (ricordatevi della conversazione con Germano).
Si spegne tutto.
Colpo di gran cassa.
Sintetizzatore rispolverato. E’ l’intro di BITUSA.
Ho visto tanti concerti di Bruce, ma una POTENZA tale, uno scuotimento dell’anima così incredibilmente vigoroso non lo avevo mai provato. E’ favolosa, sento il pavimento tremare, il pubblico copre la voce di Bruce e il grido di protesta è collettivo.
Ho un moto di commozione quando Bruce urla “Avevo un amico a Khe Sahn; combatteva i Viet Cong. Loro sono ancora là, Lui se n'è andato”. Torna alla mente Michele, che in Iraq c’è stato più volte. Tornano alla mente i ragazzi morti in Afghanistan e Iraq, le morti inutili come quella di Amadou Diallo.
THEY’RE STLL THERE, HE’S ALL GONE.
Rabbia, la urlo, e poi fiero canto “Nato negli Stati uniti”; non perchè mi sento Americano, ma perchè mi sento “nato nella società occidentale e quindi in grado e in dovere di fare qualcosa per questo mondo di merda”.
Quasi a voler dare senso a Born in the USA, c’è American Land, è ballo folk rock collettivo, una irish song coinvolgente. Altra canzone arrangiata in modo che faccia ballare, ma scritta in modo che faccia riflettere. Una canzone che parla di chi ha “costruito” l’America. Una canzone che parla di immigrazione.
Mandi Udi. Mandi Bruce. Tutti ballano e cantano.
Mi aspetto che arrivino Glory Days e Dancing in the dark.
Ma Bruce mi vuole male.
E attacca Bobby Jean. La musica non è affatto triste.
La canzone però è devastante. Prima considerazione: non c’è Tour in cui Bruce, prima di lasciare l’Italia, non canti questa canzone che è quanto di più bello che la musica ci abbia regalato per dire addio o arrivederci a qualcuno.
Seconda considerazione, ho iniziato a piangere sulle prime note, ho smesso dieci minuti dopo che era finita. E’ la prima canzone che ho ascoltato la sera del 23 ottobre 2008.
Pur facendo auto lesionismo, la ascolto sempre. Perché è speranza, è carica, è sfogo. E’ sogno.
“Adesso non c'è nessuna persona, nessun luogo, nessuno mi capirà mai come facevi tu; può darsi che tu sia qua fuori o in quella strada da qualche parte, in qualche autobus o treno viaggiando lontano, in qualche stanza di un motel dove ci potrà essere una radio che suona. E tu mi ascolterai cantare questa canzone. Beh, se è così sappi che sto pensando a te, e a tutte le miglia tra noi. E ti sto chiamando un'ultima volta.
Non per farti cambiare idea.
Ma solo per dirti che mi manchi.
Buona fortuna, addio, Bobby Jean”
La coda col sax e le braccia di TUTTO il pubblico che ondeggiano, non mi aiutano affatto. E nemmeno Dancing in the dark, canzone allegra, un ballo collettivo, tutti che saltano, ma io che rimango ancorato a Bobby Jean, e ai pensieri che anche Dancing mi fa passare per la testa; determinate persone, determinati luoghi, determinate situazioni. Una in particolare.
Sto ballando nel buio, e ho bisogno di una scintilla per accendere un fuoco. Mi giro, vedo tutto lo stadio illuminato, i lampioni tutti accesi per il gran finale. Eppure c’è buio, sto danzando nel buio dei miei pensieri, in cerca della “spark” per accendere il fuoco. E Bruce sembra che guardi proprio te e sembra ti stia dicendo “cercala nel buio dentro te, la scintilla”.
C’è spazio solo per Twist and shout, un finale che si trasforma in una bolgia. Siamo tutti stremati, tranne che Bruce, che ancora ha voglia di scherzare, correre verso il pubblico, far suonare la chitarra ai fans assiepati davanti al palco. E’ la fine di una magia durata 3 ore. Un sogno lungo 7 mesi, da quando a dicembre ho comprato i ticket per questo concerto. Nel frattempo mi sono pure dimenticato che, per puro caso, la tipa brutta e indemoniata col numero 666 sulla mano stava proprio dietro di me.
Torno a casa alle 6 di mattina del 24 luglio 2009. Sono passate 25 ore da quando son partito per Udine. Senza dormire. Senza mai star fermo. La notte tra il 21 e il 22 ho dormito 2 ore perché tornavo da Torino e poi dovevo lavorare. La notte tra il 22 e il 23 ho dormito 3, forse 4 ore, per la tensione. Sono decisamente stanco.
E’ già quasi alto il sole, mia mamma è alla finestra che mi aspetta, sorridente, mi vede arrivare e vede l’espressione che ho sul volto. A Torino c’era anche lei. C’era anche a San Siro nel 2003 e nel 2008. C’era a Monaco di Baviera nel Devils and Dust Tour. C’era all’Arena di Verona nel We shall overcome Tour.
Sa benissimo da dove arrivo, sa benissimo a cosa ho assistito.
Nel pomeriggio mi aveva mandato un sms ricordandomi che giorno fosse. Mi ha chiesto di dedicare una canzone a Michele. Hai voglia, se gliel’ho dedicata.
Vado a dormire, sono stravolto. Mi scendono delle lacrime, ed è felicità.
“It ain’t no sin to be glad to be alive”.
Era il 23 luglio 2009: a nove mesi esatti dalla scomparsa di mio fratello Michele, io ho assistito a un evento che ancora una volta mi ha lasciato senza fiato e senza pensieri, un concerto dove, a farla da padrone, sono le canzoni di “Darkness on the edge of town”, album uscito nel 1978, guarda caso anno di nascita di mio fratello Michele. Nel pomeriggio intanto Federica, la fidanzata di Michele, si è laureata in ingegneria aerospaziale. Il 23 luglio, a mio fratello, sono stati dedicati i mille pensieri e le mille emozioni di un concerto grandioso, di una serata unica….
….e anche una tesi di Laurea.
Ah, dimenticavo. Era il mio 23esimo concerto di Bruce Springsteen
Finalmente il numero 23 mi ha portato anche qualcosa di buono.