MILANO 28/11/2007 - Dutch Forum

IL CONCERTO DI MILANO VISTO DA:
D. MIGLIORINI

Arrivato alla mia tredicesima partecipazione ad un concerto di Bruce, in verità ho rischiato di non riuscire ad esserci perché sfortuna vuole che nel pomeriggio di ieri mi sia salita la febbre fino a 39. Ormai convinto di non farcela, verso le 18 ho chiamato qualcuno per piazzare il mio biglietto e quantomeno recuperare i soldi, ma niente da fare. Chi l’aveva già ed era già ad Assago, chi non riusciva per altri impegni. Questa, scoprirò più tardi, è stata la mia fortuna perché verso le 19.30, dopo la seconda Tachipirina, ho avuto un timido segnale di calo della temperatura (erano comunque ancora 38°) e a quel punto ho deciso: si parte! Mia madre e mia moglie capivano il senso della mia follia (ormai sanno che per me è un fatto di religione) ma non volevano che in quelle condizioni io guidassi la macchina. Mio fratello allora, mossa per cui gli sarò grato per tutta la vita, si è offerto di portarmi al Forum. Una volta là poi avrei contattato l’altro mio fratello, che era già dentro, e saremmo quindi poi tornati a casa insieme.
Alle 20.40 ero nel Forum. Mi sono seduto in una comoda posizione quasi frontale al palco, sul secondo anello, con una visuale completa di tutto lo stage e di tutto il palazzetto, conscio di non poter saltare come uno scalmanato ma di dover per la prima volta assaporare il concerto con maggiore tranquillità. Questo fra l’altro mi ha consentito, più di altre volte, di apprezzare i dettagli del sound della E-Street e di cantare tutte le canzoni senza troppo urlare.
Bene, il miracolo si era compiuto, mi sentivo una specie di Lazzaro resuscitato da Gesù Springsteen (scusate se il paragone possa sembrare un po’ blasfemo).
Alle 21.25 si parte. Bruce è carico, lo si percepisce dalle prime schitarrate di Radio Nowhere e ancor prima dall’energia con cui urla due volte al pubblico “Is there anybody alive out there?”, oltre al classico saluto “Ciao Milanoooo”.
Radio Nowhere non è tra le mie preferite del nuovo album ma dal vivo è una cannonata e riveste bene il ruolo di opener. Così come The Rising nell’omonimo tour, anche Radio Nowhere rappresenta l’ideale canzone-manifesto, in questo caso con un messaggio esplicito rivolto al recupero di una maggiore comunicazione tra le persone, anche e soprattutto tramite la musica.
L’aspettativa che mi ero creato, anche leggendo alcune recensioni sui concerti americani, era di un sound molto rock, con le chitarre in primo piano e una base ritmica molto potente. Così è stato, e a ciò ha contribuito anche la scelta delle canzoni e il loro arrangiamento. In più, l’unico momento di “pausa” acustica è stato su Magic, per il resto solo grande rock.
Tornando alla scaletta, il secondo pezzo è un primo bellissimo excursus nel passato, quella The Ties That Bind che apre “The River” e che tra le altre cose ci mostra un Clarence Clemmons in forma smaliante. 65 anni e non sentirli, verrebbe da dire. Rispetto ad alcune uscite precedenti (vedi The Rising Tour), ho riscontrato un Big Man più preciso e concentrato.
Lonesome Day ci riporta a tempi più recenti. Il sound è molto potente, il violino di Suzie Tyrrell sembra integrarsi benissimo con il rock ruvido della E-Street. Avendo una visuale su tutta la platea, apprezzo più di altre volte i riti che si creano nell’interazione tra Bruce e il pubblico, come sul cantato ”It’s allright yeah” di Lonesome Day, anche perché in quei momenti i tecnici delle luci buttano tutti i riflettori sul pubblico a braccia alzate.
Little Steven passa all’acustica e Bruce fa esordire l’armonica per una Gipsy Biker molto bella, tra le mie preferite del nuovo album. Il suono lancinante dell’armonica in questo pezzo ricorda, come qualcuno ha sottolineato, quello presente nel brano The Man With The Armonica di Ennio Morricone per la colonna sonora di C’era Una Volta Il West. Difficile non pensare ad una forte ispirazione e in qualche modo ad un omaggio al grande musicista italiano, peraltro amico e ammiratore di Springsteen (da leggere la prefazione di Morricone al libro Like A Killer In The Sun di Leonardo Colombati).
Poi arriva Magic, l’unico momento propriamente acustico di tutto il concerto. La canzone viene introdotta da un breve speech in italiano in cui Bruce spiega che la canzone parla di “realtà che diventa bugia e bugia che diventa realtà” e che in verità non si tratta di magia ma di trucchi. Il pubblico sembra apprezzare questo momento di intimità e di raccoglimento, con Bruce che esegue il pezzo senza base ritmica ma solo con chitarre (a proposito bellissima la parte arpeggiata di Nils Logfren), violino e un tappeto di tastiere che entra a canzone in corso. Apprezzabili i cori svolti nell’occasione da Suzie, data l’assenza di Patti Scialfa.
Se fino a quel punto Bruce e la band avevano scaldato i motori, il trittico Reason To Believe, Adam Raised A Cain e She’s The One fa letteralmente saltare in aria il palazzetto. Questa sezione è introdotta da una Reason To Believe in versione memorabile, un blues-rock di una potenza inaudita, lontana nel sound (ma non nell’emozione che genera) dalla versione originale e delle altre versioni live. Una meraviglia impreziosita da una prestazione fantastica di Bruce all’armonica con l’utilizzo del microfono distorsore, peraltro sfruttato anche nel canto dell’ultima strofa.
Adam Raised A Cain mi rende strafelice perché non ricordo di averla mai sentita dal vivo e sono quindi contento che nell’occasione sostituisca la pur splendida Darkness, che ho più volte sentito in concerto. La canzone è di una forza straordinaria e il rito dei ventimila del Forum a braccia alzate e urlo collettivo a metà canzone è uno degli highlights di tutta la serata.
She’s The One, energica e splendidamente suonata dalla band, come al solito non tradisce le aspettative dell’audience, che salta e canta dalla prima all’ultima nota. Originale, a chiusura di questo trittico dal forte sapore blues, l’utilizzo dell’armonica distorta anche in She’s The One, a sovrapporsi al sax di Clarence.
Sax che la fa da padrone nella successiva Living In The Future, introdotta da un nuovo tentativo di Bruce di dirci qualcosa di vagamente comprensibile in italiano. Si intuisce che il nostro voglia farci capire come oggi l’America oggi stia tradendo i valori e i diritti che l’hanno sempre contraddistinta. Una canzone dunque solo apparentemente leggera. La sensazione che mi rimane è che, rispetto alle altre canzoni del filone musicale a cui appartiene (Tenth Avenue, Hungry Heart, Waitin’On A Sunny Day), questa sia quella meno impattante dal vivo. Certo venire dopo quel tripudio di suoni e di emozioni rappresentato dalle tre canzoni precedenti non l’ha aiutata molto ad emergere.
Poi altra canzone storica e altro momento topico del concerto: The Promised Land ci pervade di tutta la sua bellezza e la cantiamo all’unisono, facendoci particolarmente sentire su quel “blow away” che per tre volte ci fa scaricare rabbia ed eccitamento, mentre i muri del Forum vacillano.
Con tutte le volte che l’ho sentita, sull’album e dal vivo, penso che non mi stancherò mai di questa canzone, piena di rabbia ma anche di speranza, di consapevolezza ma anche di ardore.
La nuova I’ll Work For Your Love rappresenta un momento carino ma non indimenticabile del concerto, forse perché la canzone, con una bella melodia ed una introduzione degna del miglior Professor Roy Bittan, è però schiacciata dal peso della canzone precedente e di quelle che seguiranno. Eppure Bruce accenna più di una volta, rivolgendosi ai fortunati delle prime file e battendosi la mano sul cuore, al fatto che il messaggio della canzone (“lavorerò per il tuo amore, quello che altri vorrebbero gratis”) ben si adatta a ciò che Bruce vuole fare per il suo pubblico, lavorare sodo e guadagnarsi la pagnotta con il sudore. Ho molto gradito questo messaggio, anche se temo che la barriera linguistica, ahimè ancora un po’ troppo condizionante, non ha fatto cogliere ai più questo messaggio recondito.
Bruce si lascia quindi andare ad una richiesta e ad una dedica. Ad un tale Paolo, che si scoprirà poi essere Paolo Zaccagnini, storico critico musicale del Messaggero, Bruce dedica una meravigliosa Incident On 57th Street, cantata e suonata con tutta la classe che questi uomini hanno nell’ugola, nelle dita e nel cuore. Rispetto all’originale Bruce dà spazio a fine canzone ad un solo di sax di Clarence, prima di prendersi tutta la scena con un lungo ed emozionante solo di chitarra. Poi Bruce tira fuori una chicca, per la verità già apparsa nel corso del tour, ma, come dice lui stesso introducendola, è la prima volta per l’Italia (anche se poi dice di non esserne così sicuro): The E-Street Shuffle si trasforma in una festa collettiva e in una sorta di consacrazione della E-Street Band. Molto bello peraltro il finale di canzone, solo musicale, con un crescendo di ritmo e un intreccio di chitarre che rendono il momento di quelli da conservare a memoria.
Arriva il momento di tornare ad atmosfere più cupe, con la bellissima Devil’s Arcade, storia di soldati che muoiono o che tornano a casa portando con sé i tarli psicologici e gli incubi provocati dalla guerra. Bruce canta la canzone con una voce ed un’espressione del viso che lasciano trasparire tutta la sua capacità di trasferire il pathos all’ascoltatore. Impressionante anche il corposo intervento della band quando la canzone alza i decibel e porta verso un finale da brividi con il solo Max Weinberg a battere vigorosamente su cassa, rullante e piatto. Vale la pena citare la base ritmica della band, rappresentata da Mighty Max e da Garry W. Tallent. Un esempio di forza, di precisione, di dedizione e di perfetta integrazione. Anche ieri, in due ore e un quarto senza soste, i due là dietro, senza troppi riflettori addosso, hanno garantito al motore della band di girare a mille.
Parte poi l’ultimo gruppo di canzoni prima della fintissima chiusura dello show. Si inizia con The Rising. Lo spessore musicale della canzone non è dei migliori, almeno per i miei gusti, ma il pezzo rappresenta il messaggio ancora attuale di incitamento e di preghiera per una rinascita, a distanza di sei anni dal crollo delle Torri Gemelle. Il pubblico a braccia alzate urla il ritornello partecipando a questa preghiera collettiva.
Segue Last To Die, che ritengo la più bella canzone del nuovo album e che dal vivo acquista ancora più potenza e ritmo, oltre a bei cori a tre voci e al tema musicale centrale del brano suonato all’unisono dalla chitarra di Miami Steve e il violino di Suzie. Il pubblico apprezza e accompagna il canto su quel “who’ll be the last to die for a mistake”, che è già nel mito della discografia springsteeniana.
Come nell’album, anche dal vivo Last To Die è seguita dalla trascinante Long Walk Home, che parte in atmosfera quasi acustica e si risolve in un crescendo di ritmo e sonorità che la rendono inaspettatamente più energica di quello che sarebbe lecito aspettarsi da una ballata rock da ritmica e note molto convenzionali. Bruce e Clarence, uno di fianco all’altro, si alternano negli assoli della canzone. Questo è già successo nel corso della serata e la cosa si ripeterà ancora in più occasioni, a dimostrazione di un particolare momento di connessione e di unione tra Bruce e la sua band (da anni Clarence non era mai stato così impegnato come in questo tour).
Una nuova occasione per il duetto si ha nella grandiosa Badlands, che come sempre divide con pochissime altre il titolo di momento più intenso di tutto il concerto. Quell’urlo “badlands” con le braccia al cielo sul ritornello, è un must da vivere almeno una volta nella vita, così come vedere la faccia rabbiosa e carica di tensione positiva di Bruce quando canta “I believe in the love….I believe in the faith….I believe in the hope..Che sia finita qui nessuno ci crede e infatti la pausa di Bruce e della band dura meno di un minuto. Neanche il tempo di bere un goccio d’acqua e i nostri sono già di ritorno sul palco.
Girls In The Summer Clothes viene dedicata tutte le ragazze italiane, che Bruce invita a fare sentire la loro presenza. La dedica potrebbe essere banale, e magari ripetuta in altri show, se non fosse per un particolare carico di sentimenti: anche mamma Adele è “una ragazza italiana”.
Al termine di questa canzone sapevo che, prima dell’immancabile Born To Run, Bruce avrebbe suonato una tra Thunder Road, Tenth Avenue o Jungleland. La mia preferenza in assoluto sarebbe andata a Thunder Road, perché sono di quei fan che ritengono Born To Run il capolavoro assoluto ma Thunder Road la canzone per cui si prova più affetto. Nel momento specifico però forse speravo in Jungleland, perché l’avevo sentita meno dal vivo ed è comunque una sinfonia rock, una delle pietre miliari della discografia springsteeniana.
Quando Bruce ha attaccato con Tenth Avenue, un pizzico di delusione l’ho provata. Non perché questa canzone non mi piaccia, anzi, ma sapevo che a questo punto non avrei sentito le altre due sopra citate. Tenth Avenue è stato uno dei classici momenti di follia collettiva, ma la preferivo nella versione più lunga del tour The Rising, quando presentava la band.
Già pronto alla rullata iniziale di Born To Run, potete immaginare cosa ho provato quando piano e armonica hanno introdotto le prime note di Thunder Road. D’altra parte dovevo immaginarlo: Bruce non può venire in Italia con la band e non fare “the screen door slams..”. Gli Italiani già nel 1985, per sua grande sorpresa, sapevano quel testo a memoria. Così inizio a sentire un brivido, penso che un’emozione così non farà altro che peggiorare il mio stato fisico e poi mi unisco al pubblico che canta con una sorprendente buona intonazione “show a little faith, there’s magic in the night..”.
Poi inizia la parte più ritmica musicalmente e più emozionante nei testi ed è lì che inizio a piangere come un bimbo, io che in quel momento e in quel posto avrei potuto non esserci.
La canzone è molto rock, come tutta la serata, e la sensazione è che Bruce e la band non la suonino con sufficienza a mò di regalino, ma che ci diano dentro dalla prima all’ultima nota, con quel finale che ogni volta mi ridà fiducia nella vita.
E’ il turno, adesso sì, di Born To Run, votata da molti come la migliore canzone rock di tutti i tempi. Sentirla ancora nel 2007, suonata dalla stessa band, a 32 anni dalla sua incisione, beh, è un’emozione indescrivibile. Ancora un grande Clarence nel solo di sax e un Bruce ispiratissimo nel canto ma anche con la chitarra, soprattutto nella parte dopo l’everlasting kiss.
L’ultima strofa, una delle più belle nella storia del rock, e l’oh-oh finale ci fanno raggiungere l’apoteosi, come se si scoperchiasse il tetto del Forum e fossimo a diretto contatto con le stelle.
Arriva Dancing In The Dark, in versione schitarrata rock come nel The Rising tour e quindi a mio parere molto migliore rispetto alla versione più ibrida elettrica-elettronica con cui è stata suonata nelle tournèe degli anni ’80. Dopo un trittico come quello che l’ha preceduta, che ha portato la serata ai massimi possibili, Dancing ha il merito di aver tenuto molto alti i toni. Molti del pubblico, tra cui il sottoscritto (ho 36 anni) non dimenticano che questa è stata la canzone che ci ha rivelato Bruce, perché per la prima volta, noi quindicenni dell’epoca, lo trovavamo nei juke-box e potevamo fare i primi passi da appassionati di rock e di Bruce.
Infine American Land: non pensavo che Bruce la tenesse anche a chiusura degli show in Europa, una canzone così a stelle e strisce, nel bene e nel male. Poi però, anche leggendo il testo che scorreva nel maxischermo mentre veniva eseguita, ho capito che tutto aveva un senso, come sempre per Bruce: l’America è stata costruita da quegli europei che, senza un soldo in tasca, sono partiti dal vecchio continente in cerca di miglior fortuna, originando in qualche modo l’american dream, da perseguire in quella promised land. Nel testo vengono citati gli Italiani e, in particolare, quegli Zirilli che rappresentano metà del suo albero genealogico.
La canzone è una festa in stile totalmente celtico (ecco l’altra metà del suo albero genealogico), con tutta la band, ad esclusione di Weinberg, nella front line e Roy Bittan e Charlie Giordano ad imbracciare le fisarmoniche (a Charlie i migliori complimenti per un’integrazione nei suoni e negli atteggiamenti a tempo di record). Nello stesso tempo non può che venire in mente Danny Federici, peraltro anche lui di chiare origini italiane, e uno striscione nelle prime file lo conferma: “No surrender Dan” recita e l’augurio di tutti è di vederlo presto, magari già il 25 giugno 2008 a San Siro.Come commentare in chiusura: si rischia di ripetersi, ma Bruce ha compiuto l’ennesimo miracolo, non quello di resuscitarmi (come scherzosamente sostenevo prima) ma quello di procrastinare l’essenza del rock ancora nei tempi a venire. Lui ha il merito di aver portato il rock ai giorni nostri, quando negli anni ’70 sembrava in declino, un salto di trent’anni che porta il personaggio nella leggenda o meglio nella storia reale della musica e della letteratura americana. Lui che è la magica unione della liberazione del corpo (Elvis) e della mente (Dylan). Lui che a 58 anni compie ancora queste maratone rock (sissignori, questo è vero rock all’ennesima potenza, alla faccia dell’elettronica, del music business e della superficialità dilagante), fatte di sudore e di passione, di lealtà e di grande musica. Grande lui, che si rispolvera anche come eccellente chitarrista, grande la band (meno scenica del passato ma concentrata su un amalgama sonoro prodigioso), grande ancora il pubblico italiano, fatto di gente di ogni età e di ogni dove. Giuro di aver visto ragazzini che non potevano avere 18 anni così come vecchietti sicuramente ultrasettantenni. Non so se illudermi ma spero che questa favola duri ancora a lungo….Ah, quando sono arrivato a casa la mia febbre era tornata sopra i 39°.

CiaoDejo


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