LE RECENSIONI DI: WORKING ON A DREAM
Working On A Dream - La mia recensione
Di Giovanni
Avrei voluto scrivere di più, ma il tempo a disposizione è quello che è. Sebbene io sia un grande amante delle premesse, a questo giro non ne faccio. Dico soltanto che ho cercato di svestire i panni del fan e giudicare il lavoro - che poi giudicare, l’avrò ascoltato sette volte, ci vorranno mesi per una valutazione attendibile - il più obiettivamente possibile.
Working On A Dream è un album pop. Springsteen lo aveva dichiarato e così è stato. Un album molto vario, certamente - si passa dall’epopea sinfonica di Outlaw Pete al rock scanzonato di My Lucky Day, dal blues sporco di Good Eye al folk malinconico di Last Carnival passando per il country classico di Tomorrow Never Knows - ma dalla forte, fortissima accezione pop. Questo punto di partenza è a mio avviso imprescindibile. Concordo infatti con chi afferma che questo è un album che non ti aspetti da Bruce Springsteen e richiede di avvicinarvisi con una certa predisposizione, dimenticando il Bruce Springsteen a cui siamo abituati. Un album lontano dai suoi canoni. E questo a mio avviso è senz’altro positivo. Mi piace che il Capo percorra sentieri alternativi alla sua produzione dopo quasi quaranta anni di attività, è un ulteriore conferma del suo eccelso valore artistico.
Devo dire che anche la E Street Band ha dato dimostrazione di grande versatilità, interpretando la parte come sinceramente non mi sarei aspettato. L’unico che riconosceresti tra mille è Weinberg. Il grande, imprescindibile Max. Ma forse questo album suonato da un altro batterista risulterebbe ancor più controcorrente. Non è una critica ma una semplice constatazione. Significativo il fatto che Clemons praticamente non suoni.
Come la penso su O’ Brien lo sapete. Questa volta, a mio avviso, ha lavorato bene in alcuni episodi (Life Itself su tutti), mentre si è confermato il solito O’ Brien in molti altri (vedi seguito).
Ma entriamo maggiormente nel dettaglio. Io personalmente non sono un fan del pop. Lo ascolto molto volentieri in certi momenti, ma credo anche che nella maggior parte dei casi sia un genere effimero. Ecco, questa è la mia paura. Working On A Dream è un album suonato bene, curato - molto più curato di quello che Springsteen ci aveva voluto far credere - fresco, ma temo che alla lunga stanchi. Certo, ci sono la rottura con il passato, una E Street Band rinnovata, la voce immensa di Springsteen, tutto quello che vi pare, ma in troppi episodi mi sembra un disco finto (come sonorità), iperprodotto - come potrebbe essere altrimenti con O’ Brien? - senza mordente (e non c’entra niente il fatto che i brani non siano rock). Troppo, davvero troppo patinato. Naturalmente spero di sbagliarmi e mi auguro che tra qualche anno parleremo di Working On A Dream come di un signor lavoro, ma temo che il tempo ridimensionerà molti brani.
Il disco è in ogni caso fresco, senz’altro piacevole da ascoltare, nel complesso direi soddisfacente, con pezzi ottimi ed altri meno buoni. Non è certo un lavoro memorabile, ma un lavoro che non era presente nella produzione springsteeniana sì. Ed io forse - forse, non so - preferisco una novità ad un album come Magic che personalmente reputo discreto, ma che indubbiamente in molti episodi suona “già sentito”.
Chiudo con un brevissimo commento sui singoli brani.
OUTLAW PETE - Gran bel pezzo, forse una delle migliori canzoni d’apertura della carriera di Springsteen. E poi finalmente un brano lungo come ai vecchi tempi. Per carità, lunghezza non è sinonimo di qualità, ma oggi sentire un pezzo di otto minuti è davvero difficile. Finale da brividi.
MY LUCKY DAY - Ci può stare all’interno del disco. Non mi entusiasma perché suona davvero già sentito (The River) e questo lo rende scontato. Ma la sufficienza la porta a casa.
WORKING ON A DREAM - La peggiore title track di sempre. Indubbiamente all’interno del disco guadagna rispetto al singolo, ma non ci siamo. Testo di una retorica quasi fastidiosa e musica piatta. Si salvano le melodie vocali, ma è troppo poco.
QUEEN OF THE SUPERMARKET - Inizialmente mi aveva colpito molto, ma dopo i primi ascolti si è rivelata debole (ecco l’effimero di cui parlavo). Troppo prodotta.
WHAT LOVE CAN DO - Ha tiro, funziona. Musicalmente ricorda qualche lavoro di Tom Petty. Certo non un brano memorabile, ma altra cosa rispetto a My Lucky Day.
THIS LIFE - Dura per me, le sonorità proprio non mi piacciono. Qui siamo veramente nel territorio del pop con la P maiuscola. Pop orchestrale che va tanto in voga oggi nelle radio. Non credo riuscirò ad apprezzare.
GOOD EYE - Reason To Believe versione Magic Tour. Che però era mostruosa. Good Eye è “soltanto” discreta.
TOMORROW NEVER KNOWS - Tipica ballata country. Già sentita altrove ma mi piace.
LIFE ITSELF - Uno dei brani migliori del disco. Ottime, davvero ottime le sonorità, soprattutto i suoni delle chitarre. Per una volta un plauso ad O’ Brien.
KINGDOM OF DAYS - Dal preascolto era il pezzo che mi aveva lasciato maggiormente insoddisfatto. Devo ricredermi. Quando Bruce canta “Walk Away” è da brividi. Anche questo brano troppo, troppo prodotto. Chissà come suonerebbe con un arrangiamento meno orchestrale…
SURPRISE, SURPRISE - Vedi This Life, con l’aggravante di quell’entrata di Patti nel finale davvero inascoltabile.
LAST CARNIVAL - Commovente omaggio a Danny. È tutto perfetto: c’è l’organo del figlio Jason che introduce il pezzo, c’è il boardwalk di Asbury Park impregnato di malinconia, c’è il treno di innumerevoli viaggi che continua la sua corsa senza Billy. E quando, dopo le prime due strofe, la musica cresce a sostenere la voce del Capo è l’apoteosi. Da lacrime. Peccato, davvero peccato per la chiusura. Springsteen si chiede dove sia Billy e la musica si interrompe bruscamente. I cori che seguono sono peraltro azzeccatissimi, ma una coda musicale a seguire l’ultima strofa l’avrei inserita. Così il pezzo risulta mozzato, oltre che forse troppo breve. Resta, in ogni caso, un brano notevole. Grazie Bruce. E grazie Danny. Grazie infinite.
THE WRESTLER - Non è un brano del disco. Ma grazie a Dio l’ha piazzato dentro. Già detto tutto. Per me uno dei dieci brani più belli di Springsteen degli ultimi venti anni. Uccidete, anzi UCCIDETE chi ha tagliato la coda finale. Un professionista non può compiere uno scempio del genere, il pezzo è praticamente segato. Personalmente continuerò ad ascoltare la versione di 5 minuti che ho in mp3
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...un album, in primo luogo.
Chiedo scusa per la freddura, ma dopo averne ascoltato lo streaming nei giorni scorsi, l’aspetto che mi sorprende di questo nuovo album è come, contro ogni regola dell’arte (e forse anche della fisica), riesca a costituire un progetto coerente e coeso.
Nel panorama musicale Bruce Springsteen non ha mai brillato per eclettismo e originalità: i suoi lavori hanno sempre avuto due punti fissi, quasi due stelle guida: una certa unità musicale nei singoli album e un accenno di narrativa - a volte più, altre meno scoperto - fra le diverse canzoni. Quando questa strada è stata seguita con ispirazione, Bruce ha pubblicato dischi memorabili; sia elettrici che acustici. Quando se n’è allontanato, l’esito è stato più altalenante.
Ora, Working on a deam fa di tutto per deviare dalla strada maestra. Ribelle ad ogni linearità, sembra prendere per stella polare il moto vorticoso della vecchia giostra di Asbury Park. Fra un pezzo e l’altro offre sonorità al limite dell’antitesi; tradisce testi tanto eterogenei per stile e qualità che, ascoltati in sequenza, fanno pensare ad una sorridente provocazione.
Si può obiettare che un’architettura, un tema dominante, sotto sotto vi sia: l’amore realizzato e vissuto finalmente in pace e in tutta pienezza; può anche darsi, ma è una scappatoia un po’ troppo comoda. E così facendo, anche Al Bano diventa Roger Waters.
No, questo progetto non sembra avere unità secondo i tradizionali canoni springsteeniani.
E, francamente, di questo se ne infischia.
Working on a dream è tutt’altro; è un album che trova la sua coerenza altrove. Un album che ti afferra per la gola, ti trascina su quella giostra e ti rilascia solo dopo un’impressionante bonus track. Alla fine hai l’impressione di aver attraversato l’universo springsteeniano, forse in cerca d’altro; non c’hai capito niente, ma ti sei divertito.
Working on a dream (si potrà dire? Lo dico nella migliore accezione del termine) è poi un album terribilmente "ruffiano": sembra concepito per piacere a tutti almeno un po’, per sorriderti quando vorresti mandarlo a quel paese. Ruota di 180° e ti offre la "canzone feticcio" dopo averti lasciato di stucco con versi o melodie che non avresti mai voluto sentire da Bruce Springsteen.
Il giro parte con Outlaw Pete, che è un paradosso di per sé: la E Street Band che rifà le Seeger Sessions; otto minuti di splendida contraddizione western, per una Zero & Blind Terry in chiave Jesse James (e/o viceversa). Dentro c’è di tutto, forse anche troppo, ma nulla di eccessivo.
Segue My lucky day, l’accelerazione che inconsciamente avremmo gradito nella prima “maratona”. Ed è il primo indizio per capire il progetto. Con Outlaw Pete non c’entra proprio nulla, ma il suono dell’una valorizza l’altra. Lo stesso vale per Working on a dream; il testo più debole mai affidato ad una title track su una melodia da fischiettare e nulla più. Però, non c’è storia; nel contesto dell’album “suona” meglio.
Queen of the supermarket è un gancio fatale ad ogni residua illusione di concept album. Qui la giostra si blocca di colpo e comincia a girare in senso inverso; per tornare indietro nel tempo, ripercorrendo le hit parades del passato. Il pezzo è stupefacente: uno Springsteen inedito e finalmente vocalist che fa orgogliosa mostra di sé. Una melodia che è quasi parodia del suo genere, ma che riesce ad evitare il kitsch accompagnandosi ad un testo di riuscita ironia. Fa un certo effetto sentire l’autore di Devil’s Arcade sperticarsi sulle armonie orchestrali di Queen of the supermarket, non c'è dubbio, ma il pezzo è di assoluta qualità. Di altrettanta qualità è What love can do, la canzone – a detta di Springsteen – che sta alla "genesi" dell’intero album. E dalla Genesi rispuntano versi di antica memoria (Here we bear the mark of Cain / We'll let the light shine through) e che meritano ben altra trattazione. Certo però, l’oscurità springsteeninana cui si ammicca è tanto lontana dalle insegne di un supermercato (ok, ci sarebbe il parcheggio della Seven-Eleven, ma non facciamo i pignoli… ), quanto lo sono le melodie di What love can do dal pezzo precedente. A quelle sonorità si ritorna però subito dopo, e con prepotenza. Qui non c’è ironia che tenga: This Life è l’equivalente di Felicità; sì, proprio il famigerato hit di San Remo. Felicità coniugale raggiunta, con tanto di intro raccapricciante (per chiunque ami spacciare dell’orgoglio rock, almeno) ed un testo cui sembra ispirarsi la copertina dell’artwork. D’accordo. Il fatto è però che con This Life siamo a metà dell’album, si gioca oramai a carte scoperte e si deve scegliere: se arrendersi incondizionatamente all’assolo di sax, o prendere il conclusivo "What more can you expect" per una minaccia; se accettare un album che stravolge i canoni sprigsteeniani o incaponirsi alla ricerca di un’improbabile unitarietà, scartando questo o quel pezzo.
Ho detto però che Working on a dream è “ruffiano”, una simpatica canaglia : a questo punto Springsteen intuisce di dover forse qualcosa ai suoi irriducibili cultori. E gli regala (che bastardo! ) lo splendido blues di Good Eye, tanto per rimandarne la decisione e riconciliarseli ad un passo dalla resa. Testo facile facile, musica che più tradizionale non si potrebbe, ma risultato meraviglioso; quei pezzi che potrebbero durare tutto un disco senza aver nulla da dire. È la E Street Band? Sembra la Seeger Sessions Band? Irrilevante. Siamo invece in piene Seeger Sessions con Tomorrow never knows; all’apparenza poco più di un intervallo: la giostra che per un attimo rallenta, giusto per farci raccapezzare e riprendere fiato ed equilibrio. Che questo secondo numero acustico sia il segnale di un progetto più unitario? Macché; dalle sonorità senza tempo da “Quella casa nella prateria” si passa ad uno dei pezzi più “moderni” e ambiziosi mai incisi dal Nostro, e che ripercorre tutti i suoi Nineties.
Nuovo pezzo, e nuova inversione di marcia: Kingdom of days riprende da dove aveva lasciato This Life; archi a profusione per una nuova cavalcata melodica su versi che meriterebbero maggior attenzione. Ma non ha importanza ormai: o Working on a dream ci ha conquistato per il suo groove o l’abbiamo bocciato con This Life. Per questo Surprise, Surprise è tutt’altro che una sorpresa. Ci riporta alla velocità originale per l’ultimo giro di giostra: un pezzo retro, spensierato quanto immediato. Bruce Springsteen era quello di Jungleland? Sì, anche.
Le cose si complicano però mentre la giostra lentamente si arresta. Perché chi ti aveva afferrato alla gola con Outlaw Pete per lasciarti respirare appena su Tomorrow never knows, non ha la minima intenzione di lasciare la presa. Anzi, vuole fartela pagare fino in fondo. Di seguito a Suprise Suprise, The Last Carnival è davvero la pugnalata che arriva a pochi centimetri dal cuore; forse più vicino. Splendida rivisitazione di Wild Billy’s Circus Story, attesta definitivamente che, volenti o nolenti, Springsteen ha ragione lui. Malinconica e dolcissima, con quel coro finale che è una perentoria dichiarazione di vita che va oltre morte, The Last Carnival è davvero il colpo del Knock Out. Ci si ritrova storditi ai piedi della giostra, mentre sfuma un altro capolavoro buttato lì a mo’ di bonus track, The Wrestler, a cercar di capire cos’è stato questo Working on a dream. Una pazza vertigine nell’universo springsteeniano, canzone dopo canzone. Un percorso che non sembra avere capo né coda, ma che conquista proprio per questo. Che di dà la sensazione di non averci capito nulla, e la voglia di risalire sulla giostra.
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Miliardi (eppure poche) impressioni su Working on a dream
Di Supernova
Il primo cattivello pensiero che mi è passato per la testa quando ho ascoltato il disco per la prima volta è che le canzoni di Bruce finora le avesse scritte tutte Danny.
Dopo vari ascolti, specie a volume alto, la necroironia se n'è quasi del tutto andata (un pelo rimane certo), sparsa tra le trame infinite di quest'album a tessitura fitta di poliestere raffinato.
Perchè Working on a dream sembra come quelle maglie di tessuto povero di materia prima, alle quali un notevole finissaggio renderà la mano più morbida e gradevole.
Quelle maglie che appena le metti danno fastidio addosso, fino a che non ti ci abitui dopo un pò che le tieni su.
Magari ti ci affezioni prima o poi e la eleggerai la tua maglia preferita nonostante tutto, magari dopo qualche lavaggio le maglie si allargheranno o si deformerà del tutto, ricordandoci impietosamente della sua natura stessa. His life itself.
Anche le contraddizioni sono natura stessa della vita, e così Outlaw Pete ci porta tra le braccia di Morricone cullati da epiche immagini western, sullo sfondo di un "omaggio" a Paint it black forse non eccesivamente fastidioso, più che altro ridondante, visti i precedenti omaggi dei Kiss e dei bright eyes (road to joy).
Gli arrangiamenti reggono, gli archi e le chitarre sulla falsa riga di Last to die riescono alla grande a districare l'intreccio di 8 minuti.
My lucky day, sentita nell'ambito di questo disco, sembra una bomba di potenza, un lavoro di mestiere arricchito dall'ottima lucidità sonora che stavolta finalmente, bruce e o' brien ('cci sua..) riescono a dare.
E d'altronde siamo fan assetati e quando entra Stefanino a cantare, godiamo e basta. Ed è giusto così, anche se non serve un genio per capire che abbiamo sentito di molto meglio, anche in Magic.
Working on a dream, sembra addirittura molto carina in questa sequenza. Non credo che potrò togliermi dalla testa l'immagine di Bruce che si scrive stà canzone apposta sul divano di casa.
Magari pure Tom Joad l'ha scritto sul divano di casa al calduccio, ma sta canzone dal primo ascolto m'ha lasciato questa immagine fastidiosa di qualcosa di artefatto, con risultato mediocre, tuttosommato.
E se fino a qui il disco poteva avere un suo senso, ecco che entriamo in un mondo meraviglioso dove tutto ciò che desideri è a portata di mano... A Brus, ma c'avemo a portata de mano n'accetta?? nà piccozza? Pè dattela sur capoccione, mannaggia.. ma come te pò venì in mente de fà una cosa del genere???
Se c'è una pregio di Brendan o' Brien è di riuscire a rendere passabili anche canzoni, veramente brutte, del genere. Un'architettura ritmica (in realtà presente in tutto il disco) che riesce a far scorrere questi minuti drammatici della nostra storia, specie mentre il bip della cassa ci porta malinconicamente fuori dal supermercato. Per fortuna.
L'intro di Roy ricorda "Hand in Hand" dei Dire Straits, in Making movies, dove lui stesso suonava il piano.
Ma soprattutto di chi è la voce femminile dei cori?? In questo contesto trash tendo a immaginare che sia Max in versione transgender, vi prego di lasciarmelo credere.
What love can do, tendenzialmente è una canzone senza infamia e senza lode, non fosse per un ottimo ritmo e, secondo me, un'azzecattisima scelta di suoni, arrangiamenti e partizione musicale. Le chitarre sono ottime, ma questo groove, in un'eventuale riprosizione dal vivo, mi sembra difficilmente riproponibile dalla e street. Almeno alla stessa maniera.
Al primo ascolto di this life, avevo il vomito. Dal secondo in poi è iniziata a crescere e ora è quasi diventata la mia preferita del disco. Un pop praticamente perfetto, l'intreccio perfetto di I'll work for your love e di Girls in their summer clothes; i beatles incontrano i beach boys. Nel contesto di un album con queste caratteristiche la trovo perfetta. Adoro ogni singola parte della canzone, compresi i cori finali. Questo da senso al discorso intrapreso. E' pressochè l'unica canzone di working che mi da dei brividi di piacere, togliendo ovviamente the wrestler, che decisamente non fa parte del disco.
Good eye... per me davvero una delle peggiori creazioni mai fatte da Bruce. Zucchero si è impossessato del nostro. Premesso che il blues è praticamente la mia vita e che ho goduto gioiosamente delle ultime creazioni blues-oriented di Bruce, vedi reason to believe live e la stessa a night with the jersey devil, questo pezzo di blues praticamente elettronico sembra uscito fuori da human touch, con gli stessi echi e la stessa inutilità. Il peggior pezzo del disco, la odio.
Tomorrow never knows invece è una splendida chicca. La considero come nello stesso modo in cui "A little rain" si colloca nella discografia di Tom Waits. Il problema di Bruce è che buona parte dei suoi fans e dell'opinione pubblica, hanno un un catalogo ben preciso di dove riporlo. Spesso le sue variazioni artistiche - eppure così coerenti, nel ripescare nella tradizione musicale, che sia pop, rock, blues, country o folk - vengono considerate come sacrilegi. Quando pezzi come questo o come "All I'm thinkin' about" compaiono, io sono felice e ne godo.
Life itself è al momento la mia canzone preferita del disco. Mi sembrava un pò frettolosa all'inizio, ora la trovo davvero bellissima. Finalmente nel disco compare un ostinato, dopo tanti risvolti barocchi. Finalmente un testo davvero degno. La chitarra che fraseggia è il passaggio musicale più bello del disco per me, prima dell'intervento di Nils. Sofferta, ipnotica ma comunque coerente con la linea base (se c'è) dell'album.
Kingdom of days, come queen of the supermarket si avvale di un'ottimo arrangiamento che la rende passabile, ma la canzone in sè stessa fa concorrenza a Book of dreams su lucky town, oppure può essere considerata la versione burino-arricchita di I wish I were blind
Surprise... eh.. semo sorpresi sì Bruce. Ma non trovo questa canzone così spregevole fondamentalmente, forse perchè parte da una base meno "impegnata" rispetto alle altre, svolge il suo ruolo e ci ricorda dei byrds, ci ricorda time di tom waits nel giro armonico del ritornello e vabbè.. vediamo di farci ricordare solo questo. Se presa con leggerezza aiuta, tipo il confetto falqui. Basta la parola.
Su the last carnival non sono ancora molto deciso. Innanzitutto sono contento che la canzone dedicata a Danny non sia melensa e con immagini di cuore e amore. Questo già di per sè è davvero tanto. E' un saluto diverso, qualcosa che rende grazia, in maniera davvero intima. Apprezzo questa scelta, inaspettata da parte mia, quanto simile a quella che mi somiglia di più.
Ciao Handsome Billy.
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Il senso di tutto ciò esiste? ce lo chiediamo troppo?
Un mio amico ha detto che questo disco gli fa passare per la testa tutti i pensieri, dal più malsano al migliore.
Il magico Joeroberts ha detto prima che uscisse che il disco di Bruce è talmente brutto che la versione deluxe avrà 3 canzoni in meno. Citazione che non faccio mai a meno di ripetere.
A volte penso che questo disco assomigli più a una "presa in giro" che a una scommessa. Un pentolone di brillante pop retto da due manici saldissimi come Outlaw Pete e The wrestler (forse la più bella canzone di Bruce dopo Tom Joad, Matamoros banks a parte).
Quello che so è che è il primo disco di Bruce al quale do retta solo per il nome che lo ha creato. Mi sarei innamorato di Bruce con devils and dust. Mi sarei innamorato di Bruce con Magic. Con questo no, non credo.
Ma come dicevo prima, Springsteen ha spesso una collocazione precisa e chi lo ascolta fare cose diverse, spesso si sente tradito, forse perchè mira alla base le incertezze intime del fan, che vede l'artista come icona di un modo di essere e basta.
Io, alla fine, trovo Bruce coerente, anche in questo disco.
"E c'eri pure tu, ti ho vista di nascosto, il giorno in cui hai lasciato la coerenza in un altro posto". Un bar aperto tutta la notte, dove si incontra chi si spoglia dei vestiti che porta di solito, senza tradire il suo essere, solo per giocarci un pò.
La mattina dopo saremo sempre noi.
Il giorno dopo siamo noi e quello che siamo.
E quello che siamo, può anche essere gioco di variazioni che ci sembrano distanti dal nostro essere, ma che, viste nell'aria fresca dell'alba, sembrano assomigliare tremendamente a tutto ciò che pensavamo di lasciare indietro.
Ci sarà comunque the wrestler a svegliarci alla fine.
O all'inizio.
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La Mia Recensione
Di il faccino
Mi avvicino a “Working on a Dream” con molti pregiudizi: non sarà che il Nostro si è oramai piegato alle regole di un mercato che divora, inghiotte e dimentica la musica in gran fretta? Non sarà che il rinvigorito entusiasmo politico lo ha spinto a celebrare il nuovo corso americano con un disco, a prescindere dalla qualità dei pezzi? Non sarà che l'esigenza di sfruttare ciò che resta della E-Street Band prima che il gruppo, per l'età, per gli acciacchi e per gli altri impegni, sia destinato suo malgrado a terminare la sua avventura?
Tutti questi dubbi vengono ancora prima di ascoltare la prima nota e forse influenzano il giudizio finale: quel che è certo, è che rimangono, anche dopo aver ascoltato il cd per intero, e più volte.
Emerge, sin dal primo ascolto, il limite di questo disco, che non ha un filo conduttore, non ha un'idea, un concetto, una matrice che leghi tra loro i pezzi e li renda “qualcosa di più” di una sequenza di tracce riunite: il gioco più divertente è pensare, per ciascuno dei singoli brani, in quale altro album potrebbero essere collocati, a quale stile musicale potrebbero essere ricondotti, a che radici sonore attingono, senza, però, che gli stessi riescano a ritagliarsi una omogenea identità.
Diceva un mio vecchio Professore che l'Artista – qualunque sia l'Arte in cui si cimenta – a prescindere dal talento, per creare una vera opera d'Arte deve avere qualcosa da dire, da trasmettere. Senza questo fondamentale elemento, l'opera è priva di Passione, e dunque non è Arte, è soltanto mestiere.
Ecco, la sensazione è che stavolta - per la prima volta dopo “Human Touch” - Bruce non avesse realmente qualcosa da dirci. E sopperisce a questa mancanza di “passione” con un – grande – mestiere.
Non riesco a definire “brutto” nessuno dei pezzi, ma fatico anche a trovarne uno che emerga sugli altri. In sequenza, dunque:
The Wrestler non appartiene al disco, e quindi, pur ascoltandola volentieri, non posso considerarla parte di Working on a Dream.
Ecco, queste le mie personalissime impressioni, scritte non a caldo, ma dopo una buona settimana di ascolti, con un po' di amaro in bocca nel rendermi conto che, a differenza di quanto accadeva ad esempio con Magic, non mi capita, con questo disco, di non veder l'ora di andare a casa per mettermi le cuffie ed ascoltarlo.
Guardo le stelle in copertina, si è fatta sera e penso che forse siamo arrivati alla fine del viaggio.
Ma mi tengo stretto quel “forse”...
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La mia recensione
Di Lanini
Una volta i dischi te li vedevi arrivare così all’improvviso. Scendevi, che so, da top music, al Vomero; scartabellavi pigramente tra le novità e ti si parava davanti una copertina in bianco e nero, un parabrezza, con delle belle scrittone in vermiglio sangue. Ti si bloccava il respiro, perché proprio non te lo aspettavi, ti guardavi dietro le spalle nel caso ci fosse qualche altro fan che avrebbe potuto sottrartelo, te ne andavi alla cassa con fare circospetto, posavi le 9.000 lirette e… via a casa. Poggiavi il disco sul piatto e… sentivi voce, chitarra e armonica. Uhm, che strano, pensavi… un brano acustico… alla Dylan… ecco ora arriva la band… Di nuovo voce, chitarra e armonica… E sì, che ti eri insospettito, niente faccione di Bruce in copertina, niente foto della band sull’inner sleeve…
Ricordo che quando ascoltai Nebraska per la prima volta quasi piangevo per la delusione: dov’erano Roy e le sue scintillanti tastiere, e i controcanti di Steve, il dum-dum di; Max (Max is my man!) e… Big Man… oddio niente Big Man?
Una volta dei dischi in uscita non sapevi nulla, niente internet né radio, le fanzines arrivavano con mesi di ritardo e i magazines musicali copiavano notizie pubblicate dai giornali inglesi del mese prima che copiavano quelle delle riviste americane del mese prima ancora…
Arrivavano così, all’improvviso.
Oggi non è più così: ora sai che il nuovo disco di Springsteen sarà brutto molto prima che esca. Molto prima di averlo ascoltato. Sai che sarà brutto perché WOAD è stata presentata nell’intervallo di una partita di football. Sai che sarà brutto… perché la copertina è kitsch. Sai che sarà brutto perché una canzone si chiama… “la regina del Supermercato”. Sai che sarà brutto… perché Lui…suonerà al Superbowl. Sai che sarà brutto perché… è un disco pop.
E invece no! E’ un disco bellissimo! Lo ho ascoltato in auto, a tutto volume, mentre andavo a Matera. Pioggia battente fino a potenza, poi esco da una galleria e… il sole. E in quel preciso istante “a new day breaks….” Un disco luminoso quanto Magic era stato claustrofobico, compresso e distorto.
Mi piace Magic, proprio per quella rabbia inesplosa che portava sotto pelle. Il tema portante, il suo centro è “love in the times of Bush”. Alcuni grandi pezzi rock: Long walk Home, Last to Die, Devil’s arcade. Più prevedibili altri: Radio nowhere, Livin’ in the future.
Ed altri di più difficile collocazione ed apparentemente fuori posto: Girls in the Summer clothes (un brano che sembra scritto per Brian Wilson, l’unico che conosca quanta malinconia c’è nei giorni d’estate e nello sguardo delle ragazze che non si ferma più su di te) e Your own worst enemy… una strana piccola canzone che sembra gli ultimi Byrds, jingle jangle e quartetti d’archi.
Da queste due canzoni è gemmato WOAD.
Certo un disco pop. Pop come Britney Spears? Pop come Madonna? Pop come Elton John?
No. Pop come Roy Orbison. Pop come i Byrds. Pop come Brian Wison. Pop come I Love. Pop come le tante beat band che ascoltava nei locali del Jersey. I cui unici successi possono tornare d’incanto sul palco di uno stadio grazie ad un cartello sventolato nelle prime file.
Morricone meets Suicide in Outlaw pete, uno spaghetti western costruito su un “drone” suonato dagli archi, invece che dai synth. Surprise Surprise è un beat sorprendente (Byrds+love+ronettes nel finale) con max impeccabile nell’ultima parte in levare. Roy Orbison riappare in WOAD con quel leggiadro, spiazzante fischiettare (Simon & Garfunkel? Otis Redding?).La famigerata Queen of the Supermarket è un delicato racconto di un sorriso rubato, una ballata che poteva stare nel disco del 1976 che non uscì mai per i ben noti problemi legali. Life itself è un brano d’atmosfera con l’assolo di Nils inciso al contrario, insieme a The Fuse il pezzo più psichedelico inciso dalla ESB. I brani più deboli sono quelli che ti aspetti, che suonano come outtakes di altri album, che suonano come lo Springsteen che ti aspetti… Comunque di grande fascino: My Lucky day è e street sound inizio anni ’80, Last carnival è un bel racconto onirico in un’atmosfera sonora da Devils & Dust, What love can do è lo spin-off da Magic (con un break chitarra-armonica che ricorda gli Yardbirds), Tomorrow never knows un country senza infamia e senza lode, Good Eye un blues cantato attraverso il bullet mic che deriva dalla Eeason to believe live 2007, senza quella carica e priva dell’ipnotico riff superblues di chitarra….
Un disco che non suona come te lo aspettavi. Non suona come il prodotto del migliore tour dall’81 in poi. Non suona come il seguito di Magic, nonostante gran parte dei brani venga da quelle sessions. Non suona come la ESB degli anni 70. Né come quella degli anni ’80. Perché siamo nel 2009.
Suona… diverso. Come Nebraska, tanti anni fa. Quando i dischi arrivavano all’improvviso…
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Il Mito del Fuorilegge
Di Purplecadillac
Più ascolto Outlaw Pete e più non posso fare a meno di pensare a tanti personaggi che animano Nebraska, a Johnny99 ad Altantic City
Accostamento azzardato? oppure (dopo il tuffo nella leggenda di Jesse James) solo una dimensione quasi "mitizzata" di colui che sfida la legge?
Sul piano testuale e musicale si passa da una composizione scarna ed essenziale ad una quasi sinfonica. Rottura o trasformazione della stessa tematica?
Penso a quel grido, che in molti abbiamo colto come il contraltare della solitudine di RN,... quel ripetuto ed infinito "Can you hear me..?" non sembra forse assumere lo spessore di un appello che superi i limiti stretti di una dimensione umana in cui il senso della giustizia s’è perso dalla notte dei tempi?
Non che Bruce si sia messo " a tavolino" per riprendere certe immagini (che ormai ha fatto sue) e decidere volutamente di rimaneggiarle. Semmai è incredibile notare come la stessa figura, assimilata da tanta tradizione alle sue spalle, emerga forse anche inconsapevolmente diversa e più articolata o ricca di ulteriore senso ogni volta.
Da Cash alla tradizione folk corre un filone che celebra o mette in scena la figura di colui che sfida la legge e Bruce ha fatto decisamente suo. Ora lo identifica con l'immagine agghiacciante e lucida di un Johnny99 che lancia il suo grido di ribellione davanti alla giustizia umana ...in una dimensione musicale spoglia e scarna, dura, quasi scheletrica e sinistra.
Ora con la figura di Outlaw Pete che agisce e si muove sullo sfondo di uno scenario western, ma che sembra valicare i limiti della tradizione folk trasformandosi in una sorta di personaggio mitico in un paesaggio altrettanto mitizzato, fuori dal tempo e da ogni contingenza storica. Ne è esempio eclatante la parte finale in cui Pete sparisce con il suo pony fino a far perdere ogni traccia umana lasciando solo quel suo "Can you hear me?" dietro di se.
E non è un grido secco e spento ma roboante e potente, come la struttura musicale che lo convoglia e lo ripete all'infinito.
Dall’ “umano, troppo umano” Johnny99, attraverso la leggenda storica di Jesse James rivisitato, si arriva al mito … di una figura che assume quasi un valore metafisico e lascia spazio ancora una volta al peccato “redento” ma pur sempre condannato di Caino: “We cannot undo these things we’ve done”.
Il reietto, l’ “outlaw”, sparisce anche questa volta. Ma questa volta è la musica che gli rende giustizia, con una composizione a struttura sinfonica che accompagna la sua cavalcata verso l’infinito, oltre i confini del mondo conosciuto.
E mentre i condannati di Nebraska affidavano ancora una corte di uomini il loro ultimo, sconfortato quanto inascoltato appello (“Well, sir I guess there’s just a meanness in this world” – “Well, your honor, I o believe I’d better off dead”) il fuorilegge Pete lascia che siano i suoi brandelli a trasmettere e riecheggiare quel “Can you hear me?” oltre ogni dimensione umana e temporale. E quel grido resta per sempre.
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La Mia Recensione
Di Walter Giannini
Premessa: non giudicare gli ultimi 3 lavori con la E Street con la percezione di chi ha vissuto al ritmo degli album fino al 90: un errore che porterebbe a bocciare o quasi tutti e tre i lavori. Lo Springsteen di oggi non è quello dei primi 20 anni: la sua condizione esistenziale è completamente diversa e la sua musica non può prescindere da questo. In ogni caso,non possiamo pretendere che un'artista, se è veramente tale e non un mero prodotto del business, proponga sempre il meglio di sè, costantemente, non abbia cali o addirittura vuoti di ispirazione durante la sua carriera, perchè l'arte rispecchia l'interiorità di chi la esprime, anch'essa soggetta ad alti e bassi. Non scordiamoci inoltre che Bruce oggi non scrive solo per i veterani ma anche per le nuove generazioni, con il linguaggio musicale che queste possono comprendere, e ciò giustifica alcune scelte stilistiche degli ultimi album.
Fatta questa premessa, a mio avviso doverosa dopo mesi e mesi di frequentazione dei forum, passiamo a WOAD.
Al primo ascolto mi sembrò un disco piacevole, leggero, con raffinati arrangiamenti di archi (una sorpresa, direi) ma purtroppo mediocre. Mediocre anche nei pezzi più "strutturati" come Outlaw Pete, una canzone che nonostante il suo incedere epico (morriconiano qualcuno ha scritto...) non riesce a decollare e dopo un po' diventa noiosa, ripetitiva. Mi rimasero però subito impresse 4 traccie: Queen of..., The Last Carnival, The Wrestler e My lucky day: quest'ultima molto lineare, ripetitiva, certamente, ma un pezzo che infonde una energia e una carica rare: una canzone che live darà il meglio di sé. Molto di più della recente Radio Nowhere. .
Dopo molti ascolti e riflessioni, devo dire che purtroppo il mio giudizio non è cambiato...e non si sono aggiunte traccie alle 4 canzoni già citate, fatta eccezione per Kingdom of days, una track che non annovero ancora nella liste dei lavori significativi ma che sto rivalutando, che sembra si elevi, soprattutto nella sua seconda parte, dalla mediocrità generale: questi sono a mio avviso i pezzi che rimarranno; quelli che tra qualche anno continueremo ad ascoltare.
Sorvolo sulla title track: una ballad americana per il popolo americano. Niente di più. Musicalmente trascurabile, senza lode ne infamia.
Walter Giannini