IL RACCONTO DI PIETRO 

Partiamo dalla fine. Ore 00:05.
Bruce Springsteen e la E Street Band hanno lasciato il palco. Le ultime note di sassofono e glockenspiel di Thunder road si sono appena spente, ma riecheggiano nelle nostre orecchie. Il concerto è finito. Anzi no. Le 13 mila voci del pubblico di Bologna (ma la gente è venuta da tutt'Italia) fanno risuonare forte come un'invocazione pagana verso il proprio piccolo dio del New Jersey l'ultimo riff: "Oh, oh-oh-oh-oh…". Il concerto non è ancora finito. Ad un tratto qualcosa si muove sul palco. È Bruce. Si dirige al pianoforte e le note della coda di Thunder road tornano a riempire l'aria ancora carica di energia ed emozioni del palazzetto. Sì, Bruce e il suo pubblico dicono che il concerto non è ancora finito, come due amanti che dopo l'amplesso non vogliono separarsi, ma restare abbracciati tutta la notte. La magia si protrae per un paio di minuti che mi sembrano durare quanto le tre ore appena trascorse. 
Già, perché proprio poco più di tre ore prima, alle 20:40 entravo al Palamalaguti dopo un viaggio reso epico dai cantieri sull'autostrada e dallo sciopero. In buona sostanza Milano - Bologna, poco più di duecento chilometri tutti dritti e pianeggianti percorsi in cinque ore circa.. Prendo posizione di fianco al mixer. Il palco si vede abbastanza bene. Pochi minuti di attesa e poi giù le luci. Boato della folla. Ad uno ad uno i membri della band si materializzano sul palco. Bruce è l'ultimo, "Ciao Bologna", poi si gira verso Max, solo un cenno, e inizia col synt di Bittan uno dei concerti più belli e più intensi della mia vita. The rising parte come una preghiera. Singolo spot di luce sul viso di Bruce. Voce con effetto eco. Poi sulla seconda strofa attacca la E Street Band, sì proprio la E Street Band al completo, e si illumina il palco. La scarica di emozioni provoca brividi e occhi lucidi. Senza soluzione di continuità arriva Lonesome day.
Stasera la band suona con due elementi in più. Uno è Soozie Tyrell, la violinista che dall'inizio del tour ha aggiunto quel sapore rootsy alla più grande rock band del pianeta. L'altro è il pubblico italiano che, esperto corista, interviene all'unisono dove serve caricando, come se ce ne fosse il bisogno, di ulteriore emozione ogni brano. Col terzo pezzo iniziano le sorprese. Breve conciliabolo sul palco. La rara Night e la rarissima Something in the night ci avvertono che questa sarà una serata speciale. La setlist standard di Parigi o delle prime date americane è un brutto ricordo lontano. Qui siamo a Philly. Empty sky e You're missing (con Clarence che piange commosso) ricevono l'adeguato religioso silenzio. Tanto poi si torna a cantare con Sunny day, l'Hungry Heart del nuovo millennio. E si canta così bene che a canzone terminata Bruce conta nuovamente 4 e la band riparte accompagnando il pubblico che invece non si era fermato.
La voglia di suonare e il divertimento sono evidenti nelle energiche You can look (uno dei tanti duetti vocali col pard di sempre Steve Van Zandt) e No Surrender che precedono Worlds apart. Lofgren al banjo e Federici all'accordion intrecciano melodie mediorientali con il violino della Tyrell ed i cori pachistani. Poi ci pensa Bruce con un lungo solo di telecaster a concludere il brano. Il ritmo rimane alto con Badlands e cresce ulteriormente con una potente She's the one.
La band viene introdotta in Mary's place, un pezzo scritto proprio a misura di estreeters, con un occhio ed un orecchio all'Asbury sound. Musica per divertire, suonata da gente che ancor'oggi si diverte a passare tre ore al giorno su un palcoscenico di fronte a migliaia di persone entusiaste. E che si divertano lo leggi sulle loro facce di cinquantenni, che ridono e ammiccano, che se la godono e ci fanno partecipi delle loro emozioni. Grandi musicisti, autentici e genuini. Dopo il rock potente di Countin' on a miracle e Backstreets, ballata immaginifica, la band lascia il palco. Ritorna solo Bruce con il big book of song, il raccoglitore con tutte le canzoni e si dirige al piano.
Sfoglia il quadernone, chiama Patti e Nils e con tecnica forse non impeccabile, ma con cuore e sentimento ci regala una For you incredibile per intensità emotiva. Il concerto si "conclude" con Into the fire. È uno dei brani migliori del disco e dal vivo diventa ancor più emozionante, col pubblico che canta il ritornello (Possa la tua forza darci forza/Possa la tua fede darci fede/Possa la tua speranza darci speranza/Possa il tuo amore darci amore) e la band che gira a mille.
Poi tutti nuovamente giù dal palco. Pochi minuti di attesa ed inizieranno i bis (che a conti fatti rappresentano un terzo dello show). Ed ecco un'altra fantastica sorpresa. Compare il "professore" Roy Bittan da solo al pianoforte e si scatena in un irrefrenabile rock & roll alla Jerry Lee Lewis. Mai accaduto in precedenza, stando alle cronache dei precedenti concerti. Il solo dura qualche minuto fin quando Bruce si avvicina a Bittan da dietro e gli fa "tap tap" sulla spalla. "Ehi, cosa fai, questo è il mio show!" sembra dirgli divertito.
L'altro si interrompe tra le risate del pubblico. E 13 mila persone che ridono fanno un certo effetto.
Bruce e la band prendono posto ed esplodono prima nel rock anni '50 di Stand on it, B side del singolo Glory days e poi un una Dancing in the dark riproposta in versione rock con tre chitarre in prima linea. Il pubblico gradisce e balla e si agita a tempo.
Durante Ramrod, puro rock & roll da The river, si svolge una scenetta comica tra Bruce e Steve (B:"Ehi Steve, what time is it?"- S:" It's Boss time!!").
Quello che segue è l'anthem Born to run, che presenta un ospite d'eccezione già visto a Parigi: Elliot Murphy. Il primo set dei bis è terminato. Il secondo comincia con Bruce ancora al piano a suonare le prime note di My city of ruins. Poi entra la band, Bruce cede lo sgabello a Bittan e torna a centro palco per continuare il brano. Da brividi il crescendo finale col pubblico che intona: "With this hands, with this hands…". Poi il Capo imbraccia una telecaster nera dotata di bigsby e ci dice in italiano " Ho scritto questa canzone sulla guerra in Vietnam, ora la canto come preghiera di pace". Non c'è "One! Two! Three! Four!", ma la canzone è Born in the USA, particolarmente rabbiosa in questa ritrovata veste elettrica. Giusto seguito è Land of hope and dreams, che ci invita a salire su quel treno diretto verso una terra di sogni e speranze.
C'è anche un piccolo omaggio a Curtis Mayfield nel finale con qualche verso di People get ready.
Il concerto sarebbe finito, ma manca qualcosa. Thunder road ovviamente. L'armonica e il piano sono sottolineate dal grido della folla che "ottiene" la sua parte di cantato, come da tradizione:" Show a little faith, there's magic in the night…". Nulla di più vero! La canzone finisce. La band saluta, si inchina e se ne va per l'ultima volta. Sono passate quasi tre ore e noi torniamo a quel piccolo grande uomo che solo al pianoforte ci sta accompagnando suonando le ultime note di Thunder road. Le sue dita rallentano e poi si fermano sui tasti del piano. Bruce si alza. Fa un inchino e solleva la mano. Se ne va. Ora il concerto è finito. Sui maxischermi ai lati del palco compare un video con Bruce che esegue la versione acustica di Countin' on a miracle. Il pubblico indugia nel palazzetto. C'è chi non si vuole arrendere all'evidenza e continua a rimanere attaccato al palco. Bruce e la band non torneranno fuori. Sono già nei loro camerini a rilassarsi. Il concerto è veramente finito. Ma il ricordo di questa magica notte rimarrà con noi per sempre.

Pietro Cafiero


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